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Trittico di san Giovenale

 

 

 

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Famiglie fiorentine e loro possessi a Cascia nel 1427

Articolo della dottoressa Valentina Cimarri Calussi

 

Fin dalla fine del secolo XIII alcune importanti famiglie fiorentine giocarono un ruolo fondamentale nelle vicende politiche, economiche e sociali del plebato di Cascia. All'inizio del Quattrocento, quando la popolazione del luogo era ancora concentrata negli insediamenti di mezzacosta e nei fertili piani di sedimentazione fluvio-lacustre prospicienti il torrente Resco, il piano di Cascia ospitava i nuclei abitativi di maggiore consistenza ed accanto ad abitati ed a castelli ancora fortificati, i fiorentini avevano impiantato numerose case sparse sul territorio sedi di altrettanti poderi gestiti a mezzadria.

In base alle portate del Catasto nel 1427 è possibile affermare che la zona circostante l'abitato di Cascia avesse, ed ancora nel 1512, un indice di appoderamento medio-basso, con una punta percentuale massima per il popolo di S. Andrea a Cascia (73) ed una minima per quello di S. Michele a Caselli (0). Se confrontiamo il valore medio calcolato per il Valdarno superiore, 68, con quello del plebato di Cascia, 54, ci rendiamo conto in effetti come l'area dovesse essere, per quanto concerne l'impianto di strutture su podere, in una situazione di marginalità. Inoltre, fatta eccezione per i poderi di proprietà cittadina, i valori catastali e l'uso nelle portate di diminutivi - poderetto, poderuzzo - dimostrano che si trattava di entità medio-piccole più frequentemente appellate come casa con terra d'intorno. In molti casi i poderi erano costituiti da pezzi di terra diversamente dislocati a seconda della natura e del grado di fertilità del suolo; non è infrequente infatti che gli appezzamenti pertinenti un unico podere si trovassero ubicati in popoli diversi, come è verificabile ad esempio per i possessi di Luca di Luca Carnesecchi. D'altro canto anche la proprietà strettamente comitatina risultava essere molto parcellizzata e legata ad una struttura agraria parzialmente arcaica confermata anche dalla concentrazione degli abitanti nei villaggi di mezzacosta. Per quanto concerne poi la situazione patrimoniale le classi bassa e media costituivano quelle numericamente maggiori (54,6% e 26,3%); il 14,6% era rappresentato da miserabili mentre pochissimi (4,5%) erano gli agiati. In genere nelle prime due classi fiscali possono essere comprese le varie categorie dei coltivatori dipendenti - dai mezzadri agli affittuari fino ai braccianti ed ai salariati - mentre le due classi più alte tendono a coincidere con i coltivatori proprietari e gli artigiani. D'altra parte va ricordato che in questo contesto statistico non compare la categoria più ragguardevole dal punto di vista del censo, quella dei proprietari cittadini, accatastati in città in quanto residenti a Firenze. I poderi ad alta rendita catastale, concentrati nel fertile piano di Cascia, nei popoli di S. Andrea, S. Siro e S. Tommaso e nel fondovalle tra Ruota e Cetina, appartenevano infatti esclusivamente a cittadini, mentre nell'area pedemontana erano ubicati i beni dei piccoli proprietari.

Questa situazione non era solo dovuta a particolari condizioni del suolo, dove toponimi come Cetina testimoniavano recenti messe a coltura e bonifiche sull'Arno, ma anche alla prossimità delle arterie stradali di fondovalle che irradiavano da Firenze e polarizzavano nelle vicinanze della città beni e insediamenti. Questo estendersi a macchia d'olio dei possessi cittadini nel contado intorno a Firenze, pose Cascia ed i suoi popoli in un'area di confine dove, accanto alla frammentazione dei possessi, si aveva una scarsa penetrazione cittadina nelle aree pedemontane ed una arretratezza di circa un secolo, nello sviluppo della mezzadria.

Prendiamo a titolo di esempio il caso del popolo di S. Michele a Caselli dove nel 1512 non era segnalato alcun podere di valore catastale. Dalle stime di Conti, il popolo di Caselli risultava avere l'imponibile medio, per nucleo familiare, più alto di tutto il piviere di Cascia (84), un numero elevato se si pensa alla media del plebato ferma su 50 fiorini. Ed infatti su quattordici nuclei familiari solo uno era miserabile, sei poveri, cinque mediani e due agiati, constatando di fatto che la metà della popolazione risultava di livello medio-alto. Viene da sè che tutti i beni situati nel popolo di S. Michele a Caselli fossero di proprietà comitatina, come è risultato dallo spoglio delle portate del popolo, discordando decisamente dai dati medi che vedevano la proprietà cittadina penetrata in Valdarno superiore del 61%. La situazione di Caselli dimostra infatti un processo di sviluppo ben diverso in aree che, sebbene fertili e produttive, occupavano posizioni marginali rispetto alla città. A confermare l'affermazione il fatto che i popoli più prossimi al fondovalle, come S. Andrea a Cascia, presentassero una situazione diversa. Infatti, come abbiamo detto, vi si concentravano le proprietà cittadine e l'indice di appoderamento era abbastanza alto rispetto alla media del piviere. Le terre localizzabili nel popolo di Caselli erano, in prevalenza, nel 1427, di proprietà dei Landini e dei discendenti dei Bastardi da Castiglione, signori del castello di Poggio alla Regina. Ed infatti i due agiati segnalati da Conti in questo popolo erano Bartolomea di Geri di Iacopo dei Bastardi e Pace e Stefano di Landino. L'analisi della portata catastale di donna Bartolomea ci permette di vedere e descrivere una struttura agraria parcellizzata composta da più pezzi di terra pertinenti ad un'unica abitazione, dislocati in luoghi diversi, ma di consistente valore catastale: centoventotto fiorini. La presenza di un lavoratore, Meo di Simone, nominato nel documento, fa pensare ad una conduzione molto vicina a quella di tipo poderale anche se non siamo in presenza di un nucleo compatto di possessi attorno alla casa che era inoltre solo per metà della stessa proprietaria e non era abitata da mezzadri. Molto superiori invece i valori catastali dei poderi appartenenti a cittadini; uno dei poderi di Cascia di Bindo d'Andrea dei Bardi era stimato duecento quarantasette fiorini, mentre quelli in Piano di Bernardo e Vieri di Bartolo di Bindo dei Bardi, settecentottantasei e duecentoventicinque fiorini, e uno al Borgo duecentonovantacinque. Gi stessi valori catastali sono riscontrabili nei poderi dei Carnesecchi, Foraboschi e Castellani. Uno dei poderi di Bartolomeo di Baldassarre Foraboschi, nel popolo di S. Andrea a Cascia era stimato quattrocentosessantasei fiorini; un altro al Borgo duecentotrettantasette; il podere dove la famiglia di Bartolomeo abitava, con casa da signore, nel popolo di S. Lorenzo a Cascia, duecentocinquanta fiorini; simile valore (duecentotredici fiorini) per un podere con casa da signore sulla piazza di San Lorenzo a Cascia appartenuto a Nora di Gherardo Foraboschi.

E' probabile che questa tendenza dipendesse anche dalla presenza sul territorio del plebato di Cascia dell'associazione comunitaria dei 'Quattro Popoli' costituita dal consorzio di piccoli proprietari; questa communitas nacque probabilmente con lo scopo precipuo di tutelare gli interessi dei piccoli allodieri presenti forse in numero elevato fin dal XIII secolo. Inoltre la stessa conformazione prevalentemente montana del territorio non deve aver favorito l'impianto di strutture poderali, ma la persistenza di piccole parcelle divise fra diversi proprietari. C'è però una tendenza che si può evidenziare: i beni dei comitatini di fascia medio-povera sono localizzabili prevalentemente in montagna e rappresentati da terra boscata e pastura, mentre cittadini e nobili del contado prediligono le aree di mezzavalle più fertili e popolose, dove, nella prima metà del Quattrocento, si registra un certo popolamento a case sparse.

 

Le principali attività economiche ed i poderi ubicati nelle zone più fertili erano di proprietà di famiglie fiorentine almeno fin dalla seconda metà del XIV secolo, quando Cascia, non più zona di confine tra i contadi di Firenze ed Arezzo, aveva raggiunto una certa tranquillità territoriale. I beni più strettamente circostanti la pieve, tra questa ed il fondovalle, in direzione di San Giovenale a sud-est ed in direzione delle Serre a sud-ovest erano concentrati nelle mani di sei famiglie, residenti in città: Foraboschi, Carnesecchi, Bardi, Castellani, Strozzi ed Altoviti.

La situazione patrimoniale è il risultato di una cristallizzazione dei possessi innescatasi nel secolo precedente - e di cui sono testimonianza numerosi registri di imbreviature notarili - che vedeva poderi ed appezzamenti di terra passare di padre in figlio senza sostanziali modificazioni o smembramenti. Ne sono un esempio i beni degli stessi Castellani. Le compere effettuate da Vanni di Lotto Castellani alla metà del XIV secolo ed incrementate dal figlio Michele, a partire dagli anni 60, concentrate nel popolo di San Vito all'Incisa e lungo il corso dell'Arno tra Ruota e Cetina, sono riscontrabili nei possessi dei figli e dei nipoti. La torre dei Bandinelli, sull'Arno, di fronte al castello di Incisa, viene acquistata nel 1367 da Michele di Vanni Castellani per 1320 fiorini; nel 1427 la troviamo registrata nel campione di Giovanni di Michele come casa posta sopra il ponte di Lancisa luogho detto la torre Bandinello. Nel 1364 lo stesso Michele acquista un podere a Panicale, nella corte di San Giovanni, per 75 fiorini, nel 1378 vi acquista una casa; podere e casa sono registrati, nel 1429, tra i beni di Francesco e Margherita, pupilli di Matteo di Michele di Vanni Castellani deceduto in quell'anno. Negli stessi anni Michele Castellani acquista da Jacopa di Bartolomeo Foraboschi alcuni beni alle Serre, tra i quali un podere; tra i beni di Matteo di Michele nel campione del Catasto è registrato un podere alle Serre l.d. Chasaccio a I Gerozzo de' Bardi, a II rede di Casciano, a III rede di Baldassarre Foraboschi. Dal documento risulta che, come i beni di Michele erano passati al figlio Matteo così quelli confinanti di Jacopa Foraboschi erano passati al figlio Baldassarre e pervenuti infine nelle mani del nipote ser Bartolomeo di Baldassarre. Le stesse considerazioni possono essere fatte per i beni di piccoli proprietari locali. Il campione registrava tra i confinanti un tale erede di Casciano; di fatto un tale Casciano da Cascia è più volte citato tra i proprietari di beni confinanti quelli acquisiti dai Castellani nella zona di Cascia nella seconda metà del XIV secolo. Inoltre Filippo di Stefano Casciani - dal nome del nonno era derivato probabilmente un cognome - allibrato e residente in Firenze possedeva ancora nel 1427 due poderi in Chiesimone, presso le Serre ed un podere a Cavallaia confinante con i beni di Giovanni di Simone Altoviti. Tra i suoi beni Giovanni Altoviti registra un podere alle Serre l. d. Chiesimone, con casa da signore e da lavoratore che fu di Casciano a I Chiesimone, a II Casciani, a II Landino di Chele, a IV Gerozzo Bardi, a V Foraboschi; pertanto una parte dei beni di Casciano erano passati agli eredi ed una parte, almeno un podere, risultano essere stati alienati.

Queste consolidate linee di tendenza radicalizzate poi ulteriormente nei decenni successivi del Quattrocento - ne è testimonianza il catasto del 1479 - ci permettono di affermare che dalla situazione patrimoniale registrabile nel Catasto del '27 non differisse sostanzialmente quella solo ipotizzabile per il 1422 se non per passaggi di proprietà interni ai nuclei familiari. Senza dubbio la stessa fu la struttura della società locale nella quale il Trittico fu accolto.

A tale proposito vediamo adesso più da vicino la divisione dei possessi fondiari ubicati a San Giovenale (fig. 1). Nel 1422 la chiesa di San Giovenale era annessa a quella di San Tommè ad Ostina e gli abitanti del luogo facevano pertanto parte del popolo di San Tommè che nel 1427 contava 43 fuochi e 213 abitanti. Tra queste famiglie solamente due, quella di Donato di Giovanni e quella di Antonio di Biagio detto Righatto, erano residenti nel luogo detto a San Giovenale. Donato di Giovanni da San Giovenale possedeva una chasa chon due peççi di terra, uno peçço avignata e l'altra lavoratìa posto in luogho detto a San Giovenale chonfinata da primo via, da sicondo Mariano di Stefano forbiciaio, da terço Baldo di Bartolomeo, da quarto Antonio di Cristofano, da quinto Piero di Nuto; rende l'anno una soma di vino e dieci staia di grano e uno quarto orcio d'olio. Anche Rigatto possedeva una chasa nella quale habita pro non divisa posta nel popolo di San Tommè d'Ostina luogho detto San Giovenale cui a primo e secondo via, a iii Monna Gloria donna che ffu di Cristofano di Bartolomeo Rinuççi et iiij <beni> di Domenico di Sandro. I confinanti di Donato e Rigatto non risultano essere residenti a San Giovenale. Solo due sono rintracciabili: Mariano di Stefano forbiciaio e Baldo di Bartolomeo di ser Baldo entrambi allibrati e residenti in città.

Mariano di Stefano era forbiciaio a Firenze, ma con molta probabilità originario del popolo di San Tommè d'Ostina; infatti, oltre ad un podere con casa da lavoratore ed un pezzo di pastura ubicati a Santa Tea ed un podere a Mercatale, nel popolo di Sant'Andrea a Cascia, tra l'altro confinato con i beni di Vieri di Bartolomeo de' Bardi, egli possiede ben tre poderi nel popolo di San Tommè. Due sono ubicati sul torrente Resco e caratterizzati dalla presenza di una casa da lavoratore e pezzi di castagneto; il terzo, sebbene non sia specificato, potrebbe essere quello di San Giovenale valutato 128 fiorini. Questi beni permettono a Mariano un discreto tenore di vita tanto che può permettersi di mantenere non solo la famiglia nucleare - composta da monna Nanna e da due bambine piccole Nese e Maria - ma anche sua madre Nicolosa e due cugine in età da marito Nanna e Sandra. Ha inoltre un buon numero di debitori che distinge in buoni e cattivi, sia fiorentini che cascesi.

Baldo di Bartolomeo di ser Baldo, di anni 36, possedeva a San Giovenale la casa avita: una chasa posta nella legha di Cascia popolo di San Tommè d'Ostina piviere di Cascia luogho detto a San Giovenale chon più masserizie per suo uso. La proprietà, stimata 212 fiorini, comprendeva anche più pezzi di terra ubicati ibi prope. Oltre alla moglie Checha e a cinque figli, Baldo manteneva la madre Maddalena e la nonna Nicolosa. Il marito di Nicolosa, ser Baldo, omonimo del nipote, aveva rogato su questo territorio alla fine degli anni '60 del XIV secolo ed era peraltro uno dei notai che curarono gli acquisti di Michele di Vanni Castellani in quest'area del contado.

Tra i confinanti di ser Baldo si trovava Simone di Vanni, nipote di Michele Castellani che possedeva a San Giovenale un podere con casa da signore e da lavoratore, forno e aia composto da vigne, boschi e terre lavoratìe per 80 staia secondo i seguenti confini: da I via, da II Cristoforo di Michele, da III e IV Baldo di ser Bartolomeo di ser Baldo. Questa proprietà, registrata al Catasto per mano del fratello Jacopo, insieme ad altri beni ubicati alla destra dell'Arno, ed al patronato della chiesa di San Giovenale - come specificato nella visita pastorale del vescovo Benozzo Federighi del 1436 - era pervenuta a Simone Castellani nel 1422 in seguito alla morte del padre Vanni (fig. 2 e 3).

Il podere ubicato invece sulla sinistra è registrato tra i beni della chiesa di San Giovenale (fig. 4): si tratta di un podere al lato della chiesa di staiora diciotto di terra tra buone e chattive con poche viti e pochi ulivi confinato a I via, a II rede di Domenico di Sandro, a III Manno di Giovanale, a IV rede di Berto Carnesecchi. Quest'ultima porzione è, con ogni probabilità, uno dei quattro pezzi di terra, registrati nel 1427 nel campione dei beni di Simone, Giovanni ed Antonio di Paolo di Berto Carnesecchi, uniti al podere con casa da lavoratore che i tre fratelli possedevano lì vicino, ma alla destra del torrente Resco nel popolo della pieve di Cascia, ad Olena.

A San Giovenale possedeva inoltre un altro membro di questa famiglia, Giovanni di Niccolò di Matteo Carnesecchi. Quattro dei suoi poderi sono localizzati nel popolo di San Tommè a Ostina, uno propriamente ad Ostina, due in Pianuglia ed uno a San Giovenale secondo i seguenti confini: a I Antonio di Biagio, a II rede di Domenico di Sandro, a III torrente Pilano, a IV rede di Biagio Tuglini.

Questa era la situazione patrimoniale dell'area circostante la chiesa di San Giovenale a cavallo del terzo decennio del Quattrocento. La presenza tra i proprietari terrieri del luogo di membri di due famiglie fiorentine - i Castellani ed i Carnesecchi - ci permette di introdurre a questo punto una veloce ricognizione sull'incidenza della proprietà cittadina e di verificare, all'interno del plebato di Cascia, quali siano state le aree da questi maggiormente colonizzate.

Per quanto concerne i figli dell'erede di Berto Carnesecchi questi avevano altri due poderi nella zona di Cascia ubicati nel popolo di San Siro: al Crocicchio, con alcuni pezzi di terra dislocati nel popolo di San Tommè ad Ostina ed a Scarpuccia dove, oltre alla casa da lavoratore, possedevano una casa da signore per i loro trasferimenti in contado. A San Siro, lungo la via, si trovavano alcuni pezzi di terra lavoratìa di Manetto di Zanobi Carnesecchi ed un podere, in località Chasciano, di Bernardo di Cristoforo Carnesecchi.

La fetta più consistente dei possessi familiari era però nelle mani di Luca di Luca Carnesecchi con appezzamenti di terra e vari poderi nei popoli di San Tommè d'Ostina, San Siro, Sant'Andrea e San Pietro a Cascia. Una chasa chon un peçço di vigna posta nel popolo di San Tommè d'Ostina legha di Chascia Valdarno di sopra a i e ij via a iij il detto Lucha a iiij la detta chiesa e in parte rede di Domenico di Sandro (...); un podere a San Seri luogo detto la Chasa Nuova con casa da lavoratore, confinato con i beni degli eredi di Paolo di Berto Carnesecchi, comprensivo di un pezzo di terra a Lischeto, nel popolo d' Ostina, circondato dalle proprietà dei figli di Paolo, di Giovanni di Niccolò Carnesecchi e di Piero e Lapo del Tovaglia, due bottegai di San Niccolò i cui beni in contado erano concetrati nel popolo di San Bartolomeo del castello di Viesca del quale erano forse originari. Nel popolo di San Tommè Luca possedeva inoltre un podere con più pezzi di terra ad altissimo valore catastale, 398 fiorini (fig. 5); un podere ad Ostina con casa da lavoratore ed aia; un podere a Tramboresco con pezzi di terra sconfinanti nel vicino popolo di santa Maria a Faella; un pezzo di terra a Barberino ed uno a Pianuglia. Nel popolo di San Siro invece aveva una casa a San Siro, sulla strada, con vari pezzi di terra, due poderi ed un poderetto in Pian San Giovanni confinati con i beni dei suoi parenti. Al Poggio possedeva un podere confinante con i beni di Gerozzo de' Bardi, mentre un podere ubicato nel fondovalle, nelle Vallenibbi, era compreso tra un fossato ed i beni dell'erede di Baldassarre Foraboschi. Con i Foraboschi e con gli eredi di un tal Vieri pollaiolo, confinavano alcuni pezzi di terra ubicati a Morcignano nel popolo di Sant'Andrea a Cascia pertinenti un podere al Borgo di Cascia. Inoltre all'interno di questa circoscrizione Luca Carnesecchi possedeva una vigna nelle coste del castello vecchio di Cascia, ubicata lungo il fossato della struttura difensiva, ed una casa che stava per cadere sulla piazza comunale di quest'ultimo insediamento, sulla quale si affacciavano anche alcuni edifici di proprietà di Antonio di Niccolò Castellani i cui avi erano nativi del castello. Nel popolo della pieve aveva tre pezzi di terra ad Olena ed uno alla Casella, presso Cocollo, circondato da vie e adiacente gli appezzamenti di terra che donna Bartolomea di Geri dei Bastardi da Castiglione - sopra ricordata - aveva ereditato dalla famiglia del marito. Un parente di Bartolomea, Pandolfo, allibrato come nobile del contado, ma decaduto, inoltre era stato molti anni, per debiti, lontano dal contado di Firenze e aveva svolto l'attività di albergatore ad Incisa, presso l'albergo di Niccolò di Michele Castellani, chasa atta albergho colloggia e stalla dirimpitto che, nel 1427, rendeva al figlio di quest'ultimo, Antonio, oltre 285 fiorini.

Principalmente ad Incisa, Cascia e nei popoli di San Miniato alle Serre e Santo Stefano a Cetina Vecchia - dove è tuttora ubicata la fortezza che da loro prese il nome - i Castellani avevano la concentrazione dei loro possessi in contado. Gli esponenti della casata con gli interessi più consistenti nella zona erano Antonio di Niccolò di Michele Castellani, Messer Matteo di Michele di Vanni Castellani (deceduti il primo nel '27 ed il secondo nel '29) ed i sopra ricordati Giovanni di Michele di Vanni, fratello di Matteo, e Simone e Jacopo di Vanni.

I beni di Giovanni di Michele, allibrato per 3152 fiorini, rappresentati in prevalenza da poderi, erano ubicati tra Cetina, Ruota, Cancelli e Leccio; nell'area che più strettamente ci interessa Giovanni possedeva un pezzo di castagneto nell'Alpe di Cascia nel popolo di San Martino a Pontifogno. Simone e Jacopo oltre al podere di San Giovenale ne avevano altri in Pian di Tegna, a Magnale, ad Altomena e a Cetina. Antonio invece, allibrato con un imponibile di 2247 fiorini, possedeva un podere nel popolo di San Tommè d'Ostina in luogo detto Rio di Luco confinato con le rede di Matteo de' Bardi.

Sebbene anche questi membri della famiglia fossero a buon diritto nell'élite cittadina, Messer Matteo di Michele era il più ricco ed il più influente politicamente, con un imponibile di 14034 fiorini, in parte derivati anche dalle rendite di alcuni poderi cascesi. Per la maggior parte concentrati alle Serre, Messer Matteo aveva un podere a Mercatale, nel popolo di Sant'Andrea - frutto di un acquisto effettuato da suo padre nel 1377 - stimato 198 fiorini così confinato: a I via, a II Vanni d'Agnolo da Cascia, a III Simone de' Bardi, a IV Stefano di Niccolò Donati, Miniato di Matteo e Michele d'Agnolo, a V Pagholo e Lucha Carnesecchi. I confini descritti sono peraltro riscontrabili anche nel campione di Stefano di Niccolò Donati purgatore fiorentino. I beni di Matteo ubicati alle Serre erano contigui ad alcuni possessi del più influente fiorentino dell'epoca, allibrato per ben 101422 fiorini: messer Palla di Noferi Strozzi titolare in quest'area di tre poderi con case da lavoratore a Viesca e di tre poderi con case da lavoratore e palagio disfatto a Prulli, stimato 1097 fiorini.

Per concludere il quadro delle famiglie fiorentine interessate dal punto di vista fondiario alla zona, ai poderi di Carnesecchi, Castellani e Strozzi bisogna aggiungere quelli di Foraboschi e Bardi.

La famiglia dei Foraboschi, discendente dagli Ormanni, appartenuta tra XII e XIII secolo all'aristocrazia consolare, era, dopo il 1282, ma già nel periodo guelfo, in fase di declino principalmente a causa del suo mancato inserimento nell'influente mondo delle Arti maggiori; nei primi anni del Quattrocento l'esponente più in vista della casata, messer Bartolomeo di Baldassarre, aveva nella zona di Cascia - con i fratelli Ormanno e Bonsignore - tutti i suoi possessi - pezzi di terra e poderi - sebbene il patrimonio fosse stato indebolito, a partire dal secolo precedente, con alcune vendite fatte ai Castellani, come ho già avuto modo di precisare. Secondo quanto risulta dalla denuncia catastale abitavano per buona parte dell'anno in contado dove si dilettavano a seguire personalmente le attività e le rendite dei loro poderi non disdegnando i lavori manuali. Il podere principale, stimato 250 fiorini, con casa da signore dove habitiamo e con una colombaia (fig. 6) - che sappiamo fornire 50 paia di colombi domestici l'anno - era ubicato nel popolo di San Lorenzo a Cascia e confinato con la via e con i beni di monna Nora di Gherardo Foraboschi proprietaria di un podere con casa da signore sulla piazza di San Lorenzo a Cascia (fig. 7). Degli altri undici poderi di messer Bartolomeo quattro erano ubicati nel popolo di San Miniato alle Serre; due nel popolo di Sant'Andrea, al Borgo, con case da lavoratore; due a Cancelli; uno ad Incisa; uno in Pian San Giovanni presso la chiesa di San Siro; uno a Santa Tea con casa da lavoratore. Avevano inoltre un mulino sul Resco presso Viesca, due case triste, date a pigione, nel castello vecchio di Cascia e due fattoi da olio: uno a Cancelli ed uno a Caselli (fig. 8) nel popolo della pieve già documentato nel 1342. La coltivazione dell'olivo era in questi anni in forte incremento; Bartolomeo stesso l'aveva incentivata nei suoi possessi, specialmente lungo il Borro di Socini, nel podere di Santa Tea che risulta caratterizzato dalla presenza di alquanti ulivi. A questo tipo di attività i Foraboschi aggiungevano terre da pastura, ubicate nel popolo di San Niccolò a Forli, e terre boscate sul Pratomagno. Un altro aspetto importante dell'economia locale quattrocentesca era costituito infatti dai prodotti montani; le terre ubicate sul Pratomagno erano in parte destinate alla pastura, in parte terrazzate e coltivate a segale, ma principalmente tenute a castagni sia da palina che da frutto. Le castagne seccate e macinate erano impiegate nella panificazione, o consumate fresche, lessate e arrostite; inoltre sia le castagne che la farina erano commercializzate sui mercati o scambiate con farina da pane bianco che difficilmente si produceva nelle zone montane. Il castagno era poi utilizzato come materiale da costruzione, per la legna, una parte dei castagneti infatti era tenuta a ceduo, e per il carbone prodotto da epoca imprecisabile sulle pendici di Massa Nera.

Tutto questo avevano ben compreso Bernardo e Vieri di Bartolo di Messer Bindo de' Bardi che possedevano un sedicesimo dell'Alpe di Cascia ubicato lungo il crinale e delimitato dal torrente Resco, unito a quattro grossi poderi situati nel fertilissimo piano di Cascia: uno in Piano, lungo la via che portava alla pieve lavorato da un tale Luca con i suoi figli, un tempo residenti nel castello di Cascia dove possedevano la casa; uno al Borgo; uno a Santa Tea ed uno alla Torre in Piano con più pezzi di terra, stimato oltre settecento fiorini, del quale si conserva la bellissima casa da signore (fig. 9), lavorato da Pagolo d'Andrea di Durante del popolo di Caselli. Sebbene Bernardo e Vieri avessero i beni più cospicui, altri membri della famiglia erano proprietari di poderi a Cascia. Bindo d'Andrea di messer Bindo de' Bardi aveva un podere a Cascia con casa da lavoratore, terra vignata e ulivata, stimato 246 fiorini confinante con il Borro di Socini ed i beni della pieve; un podere con casa da lavoratore nel popolo di Sant'Andrea, sulla piazza del Borgo, unito a più pezzi di terra a Mercatale e fornito di un casolare disfatto e di un fornello da mattoni ancora in uso confinato con gli eredi di Casciano ed i beni dei Foraboschi nel popolo di San Lorenzo. Possedeva inoltre un lotto edificabile nel castello vecchio di Cascia ed un peçço di terra con vigna e castagneto con una terça casa da tenere terra nel popolo della pieve nel luogo conosciuto come Corte Castiglioni, dal nome dell'antico distretto castellano del Castiglione di Poggio alla Regina, ubicata lungo il fosso di Botti.

Il più volte nominato Gerozzo di Francesco Bardi possedeva due poderi nel popolo di Sant'Andrea in luogo detto Chiesimone, uno di cospicuo valore, 342 fiorini, l'altro più piccolo, 85 fiorini, tanto che lo definisce poderozzo, confinato con i beni degli eredi di Niccolaio, Simone e Antonio di Niccolaio de' Bardi, costituiti da un podere in Chiesimone ed uno a Colombare nel popolo delle Serre prossimo ai beni dei Foraboschi. Guido di Agnolo Bardi aveva un podere con casa nel popolo della pieve, mentre i beni di Stoldo e Giovanni di Matteo de' Bardi erano ubicati nel popolo di San Tommè: in Rio di Luco infatti i due fratelli avevano tre poderi ad alta rendita catastale, 262, 340 e 346 fiorini. Tutti i poderi elencati di proprietà cittadina erano condotti a mezzadria ed avevano rendite abbastanza diversificate concentrate sulla produzione di frumento, segale, vino, olio e carne di maiale.

 

In conclusione alcuni aspetti che emergono dai dati esposti devono essere puntualizzati ed evidenziati. Cascia paese ed il popolo di San Pietro segnano una linea immaginaria di confine oltre la quale, in direzione del Pratomagno, non si spingono i possessi fondiari dei cittadini, fatta eccezione per l'Alpe dei Bardi. Pertanto nei popoli montani di Caselli, Forli, Pontifogno, come abbiamo visto, sono ubicate le proprietà dei piccoli borghesi locali o dei decaduti nobili del contado. I beni delle emergenti casate cittadine sono concentrati nei fertili piani di Cascia, sulle balze che degradano verso l'Arno, più produttive e prossime alle arterie di comunicazione di fondovalle ed al grande mercato granario di Figline. All'interno di questo quadro è possibile inoltre tracciare una suddivisione geografica dei possessi; si può infatti affermare che ogni famiglia abbia tendenzialmente cercato di circoscrivere i propri beni concentrandoli in nuclei abbastanza compatti. Vediamo i Castellani infatti prevalentemente colonizzare l'area prossima all'Arno con beni ad Incisa, Cetina, Ruota, Le Serre e poi a Cascia e San Giovenale. I Foraboschi insediarsi nell'area di San Lorenzo a Cascia; i Bardi occupare tutto il Piano di Cascia fino al Rio di Luco ed i Carnesecchi, infine, la fascia compresa tra il Borgo, San Siro, Ostina e San Giovenale. Le rimanenti terre erano infine spartite tra piccoli proprietari e tra gli enti religiosi locali: la pieve, alcune parrocchiali e l'ospedale di San Lorenzo a Reggello. Da questa generale frammentarietà non differiva molto, come abbiamo visto, l'area di San Giovenale dove figuravano nel 1422 i beni della chiesa di San Giovenale, le proprietà di residenti agiati e di nativi ormai stanziati ed allibrati definitivamente in città ed i grandi poderi di due famiglie fiorentine: Carnesecchi e Castellani. Quest'ultimi, oltre ad essere patroni della chiesa, non dovettero avere un ruolo marginale nella vita sociale della piccola comunità e niente ci vieta di pensare che proprio nel 1422, Simone e Jacopo Castellani, divenuti alla morte del padre Vanni, patroni della chiesa e principali proprietari della zona, abbiano voluto donare alla comunità, per celebrare l'entrata in possesso, il Trittico.

 

 

 

 

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I Castellani come committenti del trittico di San Giovennale

 

 

 

 

 

II territorio di San Giovenale ed il Trittico di Masaccio

Ricerche ed ipotesi

Ivo Becattini

 

Il fascino che nel corso dei secoli ha suscitato il paesaggio del Valdarno Superiore in tutte le menti più sensibili ed attente è da considerarsi ormai fuori discussione.II fondovalle solcato dall'Arno, le tondeggianti colline,i calanchi dalle forme più svariate, gli altipiani pieni di oliveti, disseminati di ville, di castelli, di antiche pievi con superbi campanili, lo sfondo della grandiosa dorsale

del Pratomagno e dei monti del Chianti, affascinarono i più grandi umanisti del quattrocento fiorentino, che vi apprezzarono non solo le meraviglie naturali del paesaggio, ma anche l'intervento nel tempo di generazioni di uomini appartenenti ad un popolo raffinato, preoccupato sempre che tutto risultasse bello ed a misura d'uomo. Anche i pittori presero a modello "dei loro fondi paesistici questa valle e queste montagne dalle forme classiche e dai colori tanto perfetti. Cominciò Masaccio, Valdarnese, e lo seguirono tutti gli altri più o meno mutuando dalla valle dell'Arno e dal Pratomagno cadenze, linee, motivi, certi verdi, certi grigi, certi rosa, architetture, prospettive"1. La presenza dell'uomo in questa valle, è testimoniata dai reperti archeologici fino dalla preistoria; gli antichi insediamenti umani privilegiarono gli altipiani alla destra ed alla sinistra dell'Arno, perché il fiume riduceva il fondovalle a palude ad ogni sua piena, non avendo argini certi fino all'inizio del nostro millennio. Essendo noi interessati al territorio dell'altipiano alla destra dell'Arno, sappiamo con certezza che fu abitato dagli etruschi e che i romani lo fecero attraversare da una strada consolare importantissima che collegava i "municipi" di Arezzo e di Fiesole. Lungo questa strada consolare c'erano molti "pagi" cioè centri amministrativi romani che tra l'altro dovevano provvedere alla manutenzione della strada stessa. Uno tra questi era il "pagus" di Cascia, con giurisdizione su un ampio territorio, probabilmente a Cascia c'era l'interconnessione tra la strada consolare ed altre strade provenienti dal Casentino con l'attraversamento del Pratomagno; inoltre proprio da Cascia, dopo la deduzione di Firenze, si creò una diramazione della stessa strada consolare per raggiungere la nuova colonia romana attraverso Leccio e Rignano onde evitare l'ansa che l'Arno compie a Pontassieve.2 II compianto, illustre valdarnese Alvaro Tracchi, con le sue preziosissime ricognizioni archeologiche, ha ricostruito l'antico tracciato della via consolare evidenziando che essa passava nei pressi di Cascia e di San Giovenale dove si sono trovati resti di una piccola necropoli romana, con probabili tombe alla cappuccina"3 Con l'avvento del Cristianesimo il romano "pagus" di Cascia divenne centro di un plebato e, quindi, vi fu costruita la pieve con il fonte battesimale. L'invasione longobarda alla fine del secolo VI ebbe una importanza decisiva per questo territorio tanto che ne sono rimaste tracce indelebili fino ai nostri giorni. Tutta la zona di Cascia, che era appartenuta al fisco goto e bizantino, passò di proprietà regia e fu direttamente amministrata da un Gastaldo rappresentante del re. II centro amministrativo del territorio regio si trovava nel castello di Poggio di Luco, di cui oggi restano solo labili tracce; detto castello era situato sotto San Siro ed aveva al suo interno la chiesa dedicata a San Clemente. Presso la pieve paleocristiana di Cascia fu costruita o ristrutturata un'altra torre chiamata latinamente "guardingus" sull'alto della quale si avvicendavano le scolte dall'occhio sicuro, dall'udito perfetto, per vegliare sulla pace dei vicini e per sventare le minacce dei lontani. Un'altra torre "guardingus" si elevava nell'ultima estremità del piano di Cascia per vigilare, sul passaggio dell'Arno, nel luogo ove oggi sorge il castello della "torre del Castellano", vicino alla quale fu costruita la chiesa di Rota dedicata a San Giusto, il santo vescovo di Volterra, protettore delle scolte. Le due torri, anche se distanti, erano perfettamente dirimpettaie per cui formavano una sicura rete di posti di vedetta. L'antica strada consolare romana era ancora, in quei lontani secoli, il collegamento più importante tra Arezzo, Fiesole e Firenze: Carlomagno nella primavera del 781 la percorse col suo esercito sostando nel territorio del fisco regio longobardo a Sammezzano. Con l'impero carolingio il territorio regio di Cascia passò in proprietà del marchese di Toscana che risiedeva a Lucca. Adalberto I (846, morto dopo 1'884), marchese di Toscana e tutore dell'isola di Corsica, sostenne nell'875, per la successione all'imperatore Ludovico II' insieme al cognato Lamberto duca di Spoleto, i Carolingi, a dispetto del papa. Nel 878 con il suo esercito marciò su Roma per far prigioniero il pontefice. Non riuscendo nell'impresa, tornò indietro e per ritorsione saccheggiò la città di Narni violando la "cella memoriae" in cui erano raccolte le spoglie di San Giovenale, di San Cassio e della moglie di quest'ultimo, Santa Fausta: Adalberto trafugò i corpi dei santi e li fece trasportare a Lucca.4 San Giovenale la cui festa cade il 3 Maggio, secondo una tradizione attendibile era medico oriundo di Cartagine e quindi africano; nell'anno 369 ricevette a Roma i poteri apostolici con l'imposizione delle mani e fu inviato alla comunità cristiana di Narni di cui fu primo vescovo, sembra per sette anni. Dopo la sua morte il culto del santo si diffuse subito per la sua santità e bontà; il suo nome appare nei più antichi testi liturgici e nei codici dei martirologi. Ed era ancora molto venerato nel'878' se il trafugamento del suo corpo spinse papa Giovanni VIII a scomunicare Adalberto finché non avesse restituito le sacre spoglie alla città di Narni. Fu così che nell'880 Adalberto fece riportare a Narni il corpo di San Giovenale ed ebbe revocata la scomunica; ella chiesa di San Frediano fino al 1679. Questa vicenda è assai interessante per il nostro territorio in quanto recentissimi studi hanno messo in luce che i più importanti centri di culto di San Giovenale si trovano in Umbria lungo la direttrice che nell'alto medioevo congiungeva la capitale della Tuscia, Lucca, con il territorio del ducato romano.5 In Toscana l'unica chiesa dedicata fino dall'antichità a San Giovenale è questa sull'antica strada consolare romana in diocesi di Fiesole nel piviere di Cascia, sotto la primitiva chiesa di San Cristoforo agli Scopeti che si trovava sopra l'attuale fattoria di Mandri. Sicuramente il corpo del santo vescovo di Narni sostò nei territorio del marchese Adalberto sotto la vigilanza del "guardingus" di Cascia, forse durante il viaggio di ritorno nell'880: nel luogo doveva esserci un oratorio che successivamente divenne chiesa dedicata a San Giovenale. Abbiamo così, nella mancanza assoluta di documenti di quei secoli, una conferma indiretta che come cento anni prima con Carlomagno, il collegamento tra Lucca, Firenze ed il ducato romano passava ancora su questo altipiano di destra del Valdarno superiore. Nella prima metà del secolo X anche questo territorio ebbe a subire l'invasione dei ferocissimi Ungari e se la popolazione della zona trovò rifugio nei castelli di Cascia Vecchia, Viesca, Ostina Vecchia, Poggio di Luco, Leccio, Cetinavecchia, Arfoli e Fondoli, gli ecclesiastici fortificarono la torre "guardingus" accanto alla pieve che fu chiamata così Castelnuovo di Cascia. Concluse ormai le invasioni degli Ungari, nel 995 il marchese Ugo di Toscana donò alla Badia di Firenze tutte le vastissime proprietà dell'ex fisco regio longobardo, con tutti gli abituri, il castello di Poggio di Luco e tutte le altre 208 case e cascine di massari. La zona era vastissima andando dall'Arno fino a Forlì, comprendendo l'attuale Reggello e Cascia. La Badia successivamente vendette a pezzi il vasto territorio. Il 25 Marzo 1032 il vescovo di Fiesole Iacopo il Bavaro, avendo acquistato la chiesa di San Giovenale e tre mansi o poderi, li donò al Capitolo della Cattedrale di Fiesole perché i Canonici potessero avere mezzi di sussistenza. Mons. Raspini giustamente scrive che da allora "quanto vi era a San Giovenale cominciò ad appartenere al Capitolo dei Canonici di Fiesole". Dice ancora "che chi aveva la proprietà della chiesa, godeva anche del patronato su di essa, aveva cioè il diritto di scegliere, eleggere il rettore e presentarlo al vescovo per la relativa nomina".6 Se tutto questo è vero, nel secolo XV la chiesa di San Giovenale non era più come vedremo, di patronato e quindi di proprietà del Capitolo della Cattedrale di Fiesole. Nella seconda metà del secolo XII avendo raggiunto tutta la zona la massima prosperità economica e demografica, si provvide alla ricostruzione delle antiche chiese ed oratori: a Cascia si costruì la meravigliosa pieve che circa 20 anni fa è stata riportata al suo antico splendore. La torre "guardingus" fu trasformata in campanile cessando così di chiamarsi il Castelnuovo di Cascia. Anche la chiesa di San Giovenale fu ristrutturata durante il XIII secolo: essa divenne una piccola chiesa romanica con l'abside semicircolare rivolta verso il sorgere del sole come quella della pieve. Nel 1861 fu completamente trasformata ed addirittura ne fu invertito l'orientamento che solo dopo il recente restauro è stato ripristinato; tuttavia si sono ormai perduti l'abside ed il fascino della sua antica struttura.7 Per tutto il 1200 il territorio di Cascia si trovò ad essere zona di confine tra l'espansione di Firenze nel contado e la resistenza dei feudatari, in particolare dei Guidi, e degli aretini. Ebbe quindi a subire continue incursioni di vari eserciti e le lotte tra guelfi e ghibellini vi trovarono cruenti epiloghi. La situazione andò tanto deteriorandosi che i Canonici della cattedrale di Fiesole non poterono più permettersi il lusso di mantenere un rettore a San Giovenale per cui all'inizio dell'XIV secolo l'affidarono al rettore di San Tommaso ad Ostina. Anche civilmente, dopo la conquista definitiva del territorio da parte del comune di Firenze il popolo di San Giovenale fece parte di quello di Ostina. Il 28 Giugno 1305 fu distrutto definitivamente dai fiorentini uno tra i più turbolenti castelli del piviere di Cascia, quello di Ostina Vecchia che fu raso al suolo ed anche la chiesa che si trovava all'interno antichissima, dedicata a San Biagio, ebbe gravi danni tanto che successivamente crollò ed il culto del santo fu continuato in quella di San Giovenale. San Biagio, la cui festa cade il 3 Febbraio, fu un santo vescovo, martire ed anche se sono incerte ed oscure le notizie della sua vita e del suo martirio, sembra che sia stato medico prima di essere eletto alla cattedra vescovile di Sebaste in Armenia, sua città natale. Il suo martirio sarebbe avvenuto all'inizio del IV secolo e tra gli strumenti con cui fu torturato, la leggenda indica soprattutto i pettini di ferro con i quali sarebbe stato scorticato. Il santo è stato sempre implorato per ottenere la guarigione da ogni forma di mal di gola e da altre svariate malattie degli uomini e degli animali, ed inoltre è stato nei secoli invocato dalle ragazze per trovare un marito. Nella seconda metà del 1300 si assistette nel territorio del piviere di Cascia ad una progressiva accentuazione nell'acquisto di proprietà fondiarie da parte della ricca borghesia fiorentina, per cui si affermò definitivamente l'appoderamento ed il contratto mezzadrile. Il fenomeno si intensificò specialmente dopo il 1384, anno in cui il comune di Arezzo perse l'ultima parvenza di autonomia e fu assoggettato, col suo contado, definitivamente a Firenze: la zona di Cascia cessava di essere territorio di confine e di lotta e quindi era ormai sicura ed appetibile. Molti fiorentini appartenenti alla ricca borghesia mercantile, discendenti da famiglie originarie dal territorio di Cascia, acquistarono le terre dei loro avi: così i Carnesecchi, i Foraboschi, i Castellani.

Essendo solo questi ultimi legati alla storia del Trittico, evito di parlare delle altre famiglie e dirò solo dei Castellani. La famiglia Castellani, secondo il Verino ed il Mecatti, fu originaria del popolo di San Andrea del castello di Cascia; fu potentissima ed ebbe la maggior parte dei suoi possessi lungo la strada aretina, a San Niccolò, a Bagno a Ripoli nella zona di Incisa. Moltissimi furono i possedimenti dei Castellani nel piviere di Cascia. in particolare a Cetina, a Montanino, a Rota, a Cancelli, a Leccio, a Sant'Agata, ad Ostina, a San Giovenale ecc. La loro floridezza iniziò a partire dal XIV secolo con Lotto e con suo figlio Vanni. Nella seconda metà del 1300 la figura più importante della famiglia fu Michele di Vanni di Lotto: cavaliere a speroni d'oro, fu più volte ambasciatore della repubblica, tre volte priore e due volte Gonfaloniere di Giustizia. Amò molto il Valdarno dove fece grandi acquisti nel piviere di Cascia: acquistò l'attuale torre del Castellano e gran parte del territorio intorno a San Giovenale di cui fin da allora divenne, probabilmente, patrono e proprietario insieme al figlio suo più caro, Rinieri,8 iniziando così ad invocare San Giovenale come santo protettore della famiglia Castellani. Egli acquistò beni anche a Terranuova e nella zona d'Incisa, intorno al Burchio e Palazzolo. Michele sposò in prime nozze Niccolosa di Cardinale degli Abati e, rimasto vedovo, Bartolomea figlia del ricchissimo Gherado Gambacorta di Pisa, più giovane di lui di oltre venti anni. Figli maschi di Michele furono: Vanni, Niccolò, Matteo, Giovanni e concesse mille fiorini d'oro per edificare ed affrescare una cappella in Santa Croce a Firenze dedicata a Sant'Antonio abate, per accogliere le spoglie del figlio Rinieri e le proprie. La cappella fu realizzata tra il 1385 ed il 1387 e fu affrescata egregiamente con diverse storie della vita di Sant'Antonio abate, da Agnolo Gaddi e Gherardo Starnina. Frederik Antal9 spiega molto chiaramente come la borghesia benpensante dell'epoca scegliesse volentieri scene di elemosine tratte dalle leggende dei santi per suscitare l'interesse del popolo: Antonio abate, la cui festa cade il 17 Gennaio, santo eremita del deserto egiziano, vissuto tra il III e il IV secolo, aveva avuto il merito di aver distribuito la sua ricchezza ai poveri, di essere stato tormentato dai diavoli e inoltre gli si è sempre attribuita la facoltà di proteggete contro le malattie sia gli uomini che gli animali di cui è il santo protettore per eccellenza. Sant'Antonio abate divenne quindi, con Michele Castellani, il santo più caro alla famiglia Castellani, a lui fu dedicato un grandioso ospizio o ospedale, secondo l'uso dei tempi sulla strada aretina, vicino ad Incisa dirimpetto all'attuale Torre del Castellano, conosciuto come Sant'Antonio alle Staffe: l'edificio è stato distrutto durante la seconda guerra mondiale, ma la località si chiama ancor oggi Sant'Antonio.

Tutti i figli di Michele ebbero molti onori, ma più che altro Vanni e Matteo che ricoprirono le più alte cariche della repubblica. Vanni di Michele di Vanni fu un uomo importantissimo: nel 1385 ancora giovanissimo fu fatto Cavaliere ed inviato come commissario nel territorio tra il Valdarno aretino e fiorentino ad occupare le terre tolte ad Arezzo. Fu in quell'occasione che egli abitò nel Valdarno, acquistò case a S. Giovanni, restaurò l'antica torre "guardingus" dirimpettaia di quella di Cascia vicino all'Arno e la trasformo nel cosiddetto Castello o Fortezza di Vanni oggi castello della Torre del Castellano, proprio perché posseduta dai Castellani. Vanni fu più volte ambasciatore e tre volte gonfaloniere di giustizia. La moglie Francesca di Bettino di Bindaccio Ricasoli gli donò molti figli: Michele, Giovanni, Iacopo, Piero, Lotto, Simone ed il più amato Bartolomeo. Mi piace evidenziare che Francesca ebbe un caro fratello il cui figlio, Antonio, sposò, sembra nel 1425, Filippa di Gaspero di Silvestro Brancacci. Vanni fu maestro di Zecca nel 1401, nel 1410 e nel 1418 e sui fiorini di oro fece sempre mettere come suo segno o firma un simbolo inusitato e molto particolare: due pastorali decurtati accostati dalle lettere V oppure a volte, nel 1410 e 1418, accostati con le lettere V a sinistra ed R a destra di chi guarda, per ricordare il fratello Rinieri. Egli abitava a Firenze il grandioso palazzo Castellani nella via omonima nel quartiere di Santa Croce, nella parrocchia di Santo Stefano al Ponte. Molto sarebbe da dire di Vanni ma per quanto interessa il trittico di San Giovenale, ci piace ricordare che fu lui a far costruire la splendida casa quattrocentesca presso la chiesa omonima. Così tale casa è descritta nella denuncia del Catasto che Iacopo fece per il fratello Simone che si trovava ad Avignone nel 1427. "Uno podere con casa da Signore e da lavoratore, forno ed aia posta nel popolo di S. Giovenale di staiora 80 [enorme] tra vigne, boschi e terre lavoratie. Fallo Agnolo da Cetica che da I via, II Cristoforo di Michele, da III e IV Baldo di Ser Bartolomeo di Ser Baldo".10 Vanni di Michele Castellani sembra essere morto nel Marzo del 1421 e poiché l'anno fiorentino iniziava il 25 Marzo oggi sarebbe stato già il 1422. Infatti in un atto del 2 Aprile 1422 il figlio Iacopo davanti al notaio nomina i fratelli suoi procuratori per i beni del padre Vanni recentemente defunto, essendo egli costretto ad allontanarsi per affari da Firenze.11 I beni di Vanni alla sinistra dell'Arno ad Incisa passarono, dopo la sua morte, al figlio Piero di anni 33, quelli alla destra dell'Arno, il castello, San Giovenale ecc. al figlio Simone di anni 28 il quale insieme ai fratelli assunse anche la proprietà ed il patronato della chiesa di San Giovenale. Prete di San Giovenale era Francesco di Bartolomeo che non vi risiedeva, ma abitava in San Lorenzo a Firenze essendo anche cappellano "suonate gli organi" di questa chiesa.12 Dalle portate del catasto del 1427 si capisce che a San Giovenale erano pochissimi i proprietari terrieri: il territorio e la ricchezza era nelle mani dei grandi latifondisti fiorentini e più che altro dei Castellani; e la popolazione era molto povera. Tra i mali dell'epoca, c'era anche quello di concedere ai parroci di derogare dall'obbligo di residenza nelle loro povere parrocchie di campagna per abitare nella ricca Firenze, attratti dalle comodità e dalla cultura, per cui le piú volte rimanevano nei villaggi solo religiosi con poca cultura, cui mancavano anche i libri liturgici indispensabili.

Voi direte: "Cosa c'entra tutto questo lungo prologo sulla famiglia Castellani con il trittico attribuito al Masaccio di cui si sta discutendo"? Tommaso Cassai detto Masaccio nacque a San Giovanni Valdarno il 21 Dicembre 1401 giorno della festa di San Tommaso di cui prese il nome. Dopo aver passato la fanciullezza e l'adolescenza in questa meravigliosa terra dagli splendidi scenari e dai delicatissimi colori, si trasferì con la madre a Firenze ancora giovanissimo. Come quasi tutti i provenienti dal Valdarno Superiore, la famiglia si stabilì in una casa d'Oltrarno in San Niccolò dove i Castellani possedevano molte case e forse Masaccio abitò proprio in una loro casa. Molti dalla campagna venivano a Firenze, in quegli anni godendo la città di uno dei suoi periodi più opulenti. La vita politica era dominata da una oligarchia di ricchi mercanti, il cui capo era Maso degli Albizi e di cui facevano parte Vanni Castellani e suo fratello Matteo; oligarchia che spadroneggiava senza scrupoli nelle cariche pubbliche ed esiliava ed incarcerava i più temibili avversari. In economia, Firenze era al massimo della floridezza. Gli Annuali Cerretani per il 1422 riferiscono che nelle strade vicino al Mercato Vecchio si trovavano 72 "banchi di tavoletto e tappeto", che "i cittadini possedevano 2 milioni di fiorini d'oro in denaro contante, che inauditi erano i loro possessi in merci di ogni genere, in beni e crediti presso il Monte; che in quell'anno fu introdotta in Firenze l'industria dell'oro filato, che divenne ben presto e per lungo tempo la migliore di tutto il mondo; che l'industria della seta non aveva mai confezionato tante stoffe quanto in quel tempo e che mai s'era avuto in giro quantità di broccato Di) riccamente intessuto d'oro e di maggiore bellezza...".13 Con questa grande ricchezza concentrata nelle mani di poche famiglie, Firenze era la capitale artistica del mondo, centro delle arti e delle lettere con Donatello, il Ghiberti, il Brunelleschi che già dal 1417 stava costruendo la cupola di Santa Maria del Fiore e all'inizio degli anni venti era impegnato in San Lorenzo alla ricostruzione della Chiesa su incarico di Giovanni di Averardo de' Medici. Nelle lettere la cultura umanistica era ormai giunta ad altissimi livelli nell'indagine filologica dei testi classici e la lingua latina era sempre più usata in modo sapiente nella prosa, nella poesia, nella scrittura. Lo studio dell'antichità greca e latina avevano creato una nuova concezione della vita e della missione dell'uomo: tutti i cittadini dovevano interessarsi degli affari pubblici e tutti gli uomini colti dovevano dare il massimo contributo per l'avanzamento dell'umanità. Ed ecco Masaccio arrivare in questa Firenze dal contado, pieno di entusiasmo giovanile, con uno spirito semplice e sensibilissimo; forse inizialmente lavorava col fratello nella bottega di Bicci di Lorenzo di Sant' Egidio, ma di certo immediatamente iniziò a frequentare il Brunelleschi, il Donatello ed i più eruditi umanisti. La sua arte si rifece fino dall'inizio alla natura; schivo di una pittura troppo raffinata e fastosa preferita dai magnati dell'epoca, impresse alla pittura fiorentina un impulso nuovo e vivace i cui effetti si fecero per lungo tempo sentire. Per la sua parrocchia di San Niccolò il Masaccio, come riferisce il Vasari, dipinse una Annunciazione forse prima del Trittico di San Giovenale perché sappiamo che quella chiesa fu restaurata ed ornata di cappelle nel 1420-1421 Già in questa tavola, oggi perduta, egli "mostrò assai d'intender la prospettiva".14 In San Lorenzo, dove come ho detto Brunelleschi era al lavoro, Masaccio avrà forse conosciuto il curato di San Giovenale, Francesco di Bartolomeo, che come ho detto vi risiedeva; forse proprio il curato,14bis potrebbe aver suggerito a Vanni Castellani, patrono di San Giovenale, di commissionare al giovane e poco conosciuto valdarnese il nostro trittico all'inizio del 1421. La tavola doveva essere quasi compiuta alla fine del 1421 se proprio il 7 Gennaio di quell'anno (moderno 1422) il Masaccio si iscrisse all'Arte dei Medici e Speziali essendo obbligato ad iscriversi ogni "artista che avesse voluto operare in proprio e che avesse dovuto eseguire, in Firenze, lavori importanti alla vista di tutti;"15 quasi certamente lo fece per poter riscuotere dal suo ricchissimo committente quanto pattuito per questa sua opera assai importante. Abbiamo supposto che Vanni sia morto nel Marzo quando il trittico doveva essere stato ormai portato a termine ed il pittore avrà forse già avuto il suo compenso. Il 12 Aprile 1422 fu la Santa Pasqua ed il 19 successivo, domenica in Albis, fu consacrata con grandi festeggiamenti la chiesa di Santa Maria del Carmine. Masaccio era presente alla festa e la raffigurò nella famosissima Sagra andata perduta.I123 Aprile 1422, giovedì, egli appose sul trittico la data conclusiva, a caratteri romani per qualificarsi umanista a pieno titolo. La data potrebbe essere una data votiva, come per il trentesimo della morte di Vanni, oppure il pittore si era impegnato a consegnare il trittico prima del 3 Maggio, festa di San Giovenale, o forse ancora la domenica precedente all' inaugurazione della chiesa del Carmine avrà preso nuovi impegni di lavoro per cui era necessario porre fine al precedente. A chi fu consegnato il trittico? Dato che il committente era morto, è mia opinione che questo sia stato preso in consegna dal curato di San Giovenale e cappellano di San Lorenzo e che quindi sia rimasto inizialmente a Firenze (dove sembra abitasse anche il pievano di Cascia Cristoforo Bonichi, canonico di Fiesole). Ed a Firenze certamente fu visto ed ammirato dagli artisti dell'epoca e dai più raffinati intenditori che ne apprezzarono l'originalità: vari pittori sembra abbiamo risentito dello studio della splendida tavola. La iniziale permanenza a Firenze è avvalorata come vedremo anche dalla sua storia successiva. Il trittico alla luce della ricostruzione storica fin qui fatta, credo offra nell'insieme una facile lettura, anche se il committente, come tutti i ricchi committenti dell'epoca, era stato molto esigente nel pretendere da Masaccio la precisa espressione di quanto egli voleva rappresentare. Nel pannello centrale è raffigurata la Madonna in trono col Bambino: i Castellani erano devotissimi alla Vergine "Gratia Plena Domimus Tecum Benedicta" come è scritto sul gradino del trono; infatti lo zio di Vanni, Lotto, nel 1412 aveva intitolato a Maria Assunta in Cielo l'ospedale o rifugio per i pellegrini fatto costruire sulla via aretina presso Bagno a Ripoli.16 Come le altre Madonne del Masaccio anche questa è "una donna di forme piene, di un biondo albino, senza sopracciglia, come vuole la moda del tempo, dagli occhi vivi e la bocca lievemente imbronciata''.17 Nella raffigurazione della Vergine e del Bambino, come molto chiaramente ha messo in luce stamattina padre Angelo Polesello, "possiamo cogliere l'intrecciarsi di vari temi della Passione secondo Luca in vista di una catechesi eucaristica. "Il velo del tempio si squarciò, (25, 45) anticipato dall'istituzione dell'Eucarestia nel grappolo d'uva come "frutto della vita" (22,18), dal tema del "più piccolo" nel Bambino in piedi (22, 26) e ancora dal Desiderio" (22, 15) nelle sue dita in bocca.18 Dunque in Masaccio, se pure ventenne, c'è già, secondo padre Polesello, una profonda cultura religiosa: il velo trasparente che si interrompe sul Bambino vuole rappresentare il velo del tempio che si squarciò con la morte di Cristo in quanto quella morte ci donò il libero accesso alle novità di una relazione filiale con la Paternità di Dio. Questa penetrante conoscenza religiosa del giovane pittore secondo padre Polesello è da mettersi in relazione alla grande amicizia che lo legava al Brunelleschi d al quale aveva mutuato anche la prospettiva del quadro. Si sa infatti, che Ser Filippo "dava opera alle cose della Scrittura Cristiana, non restando d'intervenire alle dispute ed alle prediche di persone dotte, delle quali faceva tanto capitale per la memoria sua che Paolo dal Pozzo Toscanelli, celebrandolo, usava dire che nel sentire arguir Filippo gli pareva un nuovo S. Paolo". I santi alla destra di chi guarda sono San Giovenale e Sant'Antonio abate, gli antichi cari protettori della famiglia Castellani: essi stanno pregando intensamente, con posizione rigidamente immobile e la Vergine è rivolta verso di loro. San Giovenale tiene con la mano destra il libro aperto dove si può leggere nel I rigo (l'unico che si intravede nella pagina sottostante) "Nomine", nel II rigo "bene" che fa parte dell'Antifona al Salmo messianico 109 (110) che inizia al IV rigo. "[Dixit] Dominus Domino meo [se] de adestris meis - [donec po]nam inimicos tuos ecc." La grafia sul libro può essere paragonata con l'unico autografo di Masaccio, in un documento del 1427. II santo vescovo tiene con la sinistra il pastorale con la curvatura verso il popolo come deve tenerlo ogni vescovo nel proprio territorio. I pastorali non presentano più la decorazione a smalti propria del periodo gotico, ma hanno le volute con modellato naturalistico tipico del periodo rinascimentale. Sant'Antonio abate e rappresentato in aspetto senile, con lunga barba, con ampio saio e mantello e con gli attributi principali del bastone a forma di T dell'eremita ed il porco, privilegi dell'ordine degli Antoniani, fondato nel 1095 della cui regola il santo tiene anche il libro nella mano sinistra. Nello scomparto centrale l'angiolo di destra, anche se il volto è appena accennato, non ha più gli occhi rivolti alla Madonna, le mani non sono più perfettamente giunte ma un po' allargate, è rivolto verso l'altro angiolo che sta facendo un gesto silenzioso con le braccia per richiamare l'attenzione della Vergine: stanno arrivando, e quindi devono essere presentati, due nuovi santi protettori della famiglia Castellani, San Biagio e San Bartolomeo. Da sinistra c'è una luce come proveniente da una porta; infatti l'angelo di sinistra ha la veste illuminata sul dietro: i due santi di sinistra sono in movimento, come fossero all'esterno e quindi più luminosi. Essi si presentano alla Vergine con gli attributi della loro santità e del loro martirio, San Biagio col pastorale ed il pettine di ferro del martirio, San Bartolomeo apostolo, col libro del suo apostolato e col coltello simbolo della sua tortura: sembra infatti che sia stato spellato vivo. II rosso delle vesti è il colore dei martiri; il pittore ha dipinto rossa la veste di San Bartolomeo e bianco il mantello, mentre San Biagio ha rosso il piviale e bianca la veste. San Biagio come ho già detto, era venerato nell'antica chiesa del castello di Ostina Vecchia e forse lo stesso Vanni ne aveva trasferito la devozione a San Giovenale; San Bartolomeo è raffigurato in ricordo del figlio prediletto, pre-morto al padre, che era stato sacerdote e canonico: Bartolomeo ricordava nel nome anche lo zio Bartolomeo Castellani cavaliere Gerosolimitano. II pastorale di San Biagio non ha la curvatura verso il popolo ed è tenuto con la destra a significare che non è nel suo territorio 0 forse vuol rappresentare soltanto l'autorità episcopale. Vanni volle che Masaccio ponesse il suo emblema, la sua firma sul quadro come l'aveva fatta mettere sui fiorini d'oro. Guardando il trittico risaltano immediatamente agli occhi i due pastorali e le ali dei due angeli poste, in modo inconsueto, proprio in posizione preminente. Ebbene se immaginiamo di incrociare i due pastorali si vede che essi sono avvicinati dalle ali degli angioli che formano inequivocabilmente due lettere V. D'altronde anche nel nimbo della Vergine e sul suo petto è ripetuta con evidenza la lettera V per comporre "Virg." Da quanto detto si potrebbe evincere che i volti dei quattro santi siano quelli dei personaggi della storia dei Castellani fin qui narrata. Sant'Antonio abate sarebbe il padre di Vanni, Michele, che, abbiamo detto, introdusse nella famiglia il culto del santo. San Giovenale non può essere che il fratello di Vanni, Rinieri, di cui abbiamo già detto; San Biagio, che è l'unico che guarda lo spettatore, dovrebbe essere il committente Vanni Castellani poco più che cinquantenne: i suoi capelli e la barba sono brizzolati; San Bartolomeo sarebbe il figlio prediletto Bartolomeo. La ricerca archivistica certamente incompleta non ha, per ora, permesso di rintracciare il testamento di Vanni, né quello della moglie, né quello dei figli; forse solo da questi documenti avremmo la conferma oltre che del committente, anche dell'esecutore del trittico che ormai tutti i critici attribuiscono a Masaccio. Le ricerche fatte per scrupolo nell'archivio capitolare di Fiesole, pur sapendo che il Capitolo della cattedrale non era più patrono di San Giovenale, nei libri di Entrate ed Uscite non risultano in quegli anni pagamenti per una tavola per San Giovenale.

Anche per l'altra importante famiglia nativa di Cascia, i Carnesecchi, le ricerche d’archivio sono state negative; anzi quasi nello stesso periodo nel 1423 la famiglia commissionò a Masolino la famosa "Madonna di Brema", tanto da sembrare che le due famiglie originarie di Cascia avessero scelto i due pittori come in concorrenza. Dal Catasto del 1427 sappiamo che tutti i figli di Vanni erano obbligati ad un'offerta alla Chiesa di Santa Croce per la festa di Sant'Antonio abate e, per testamento della madre Francesca, dovevano dare ogni anno 3 fiorini d'oro ciascuno al pievano di Cascia.

All'inizio degli anni '30 il potere oligarchico di Firenze iniziò a vacillare per l'ormai sicura ascesa di Cosimo dei Medici, il quale dapprima esiliato, nel 1434 venne richiamato a Firenze dove venne accolto come salvatore della città, molti oppositori dei Medici furono esiliati e tra questi Felice Brancacci ed alcuni figli di Vanni Castellani tra i quali Piero e Simone. Il Machiavelli scrisse "che Firenze, per simile accidente [cioè con l'esilio], non solo si privò di uomini da bene, ma di ricchezze e di industria".19 I Castellani persero così molto del loro potere politico ed economico; molti dei loro beni vennero temporaneamente confiscati tra cui il castello o fortezza di Vanni che passò al grande umanista Leonardo Bruni di cui dopo dirò. Forse per questa ragione si sono perduti tanti documenti della famiglia e per la storia successiva del trittico non ci resta che riferirci alle preziosissime relazioni delle visite pastorali dei vescovi di Fiesole conservate nell'archivio vescovile. Il 6 Ottobre 1436, 14 anni dopo la data posta sul trittico, il vescovo di Fiesole Benozzo Federighi si recò in visita pastorale alla chiesa di San Giovenale. Questa è la relazione, da me tradotta, e l'inventario che fu scritto in lingua volgare: l'originale sarà inserito nella eventuale pubblicazione degli atti di questo convegno.

"Chiesa di San Giovenale - Giorno 6 Ottobre 1436.20

II sottoscritto signor vescovo proseguendo la detta sua visita, arrivò alla chiesa di San Giovenale curata e parrocchiale di detto piviere di Cascia, di cui è rettore e prete Francesco di Bartolomeo cappellano nella chiesa di San Lorenzo di Firenze eletto da Simone del signor Vanni dei Castellani con i fratelli patroni di detta chiesa e confermato dal pievano di Cascia. In detta chiesa detto rettore non fa residenza e non ci sono sacramenti. In detta chiesa c'è un altare consacrato. Il corpo di detta chiesa è in buone condizioni ed il tetto in pessime condizioni ed ha bisogno di riparazione; il pavimento di detta chiesa è malandato nella parte inferiore ed invero nel lato destro di detta chiesa è il legno dal luogo santo.21 In detta chiesa c'è un calice elevato con la coppa argentata e la patena adeguata ed una pianeta di color verde irregolare e con un filo di seta con camice ed amitto ed un messale all'antica dislegato e mal ridotto. La canonica di detta chiesa è in buono stato. In detta chiesa si ha un reddito di dieci fiorini dall'affitto delle terre e dei beni di detta chiesa."

"Giorno 18 del mese di Ottobre 1436

Comparve davanti a detto vescovo ed alla sua curia il prete Roggerio rettore della chiesa di San Michele a Caselli procuratore e con nome procuratorio del soprascritto prete Francesco, rettore della soprascritta chiesa, ed in termine maggiore assegnato a produrre il soprascritto inventario, produsse l'inventario con tutti i beni di detta chiesa soprascritta nel soprascritto giorno che è nella filza degli inventari. E del titolo il soprascritto rettore fu rogato Ser Andrea Mattei notaio di detto mons. vescovo.

"Inventario 22 della chiesa di Santo Giovenale piviere di Cascia

1 chalice d'ottone con coppa d'ariento

1 pianeta trista

1 messale all'anticha tristo

1 crocie di lengnio

2 tovaglie d'altare

2 sciughatoi da altare

1 chamice

1 stola

1 manipelo

1 Cordiglio

1 chasetta dove stanno queste chose

1 torchiera

Inventario di terre

1 podere al lato alla chiesa di staiora diciotto di terra tra buone e chattive con poche viti e pochi ulivi confinato a primo via; 2 rede di Domenico di Sandro; a 3 Manno di Giovanale; a 4 rede di Berto Charnesecchi. Item uno peçço di terra di 3 staiora triste posto in sullo fiume rescho confinato a I rescho a 2... Item peçço di boscho sta per pasture luogo detto Sanbutoni bosta in detto popolo. Item richoglie di decima due staia in meçço o 3 di grano. Di tutte queste chose sarebbe di frutto fiorini sette. fr. 7 e dir la vuole venghi per essa. Favisi l'anno la festa di Santo Biagio, Favisi el di detta + di Maggio la sagre, il lunedi innanzi la Scensione vi venghono tutti i preti del pioviere co' loro popoli a processione e dassi mangiare a tutti i preti".

Dunque si faceva la festa di San Biagio ed il primo maggio si effettuava la sagra della consacrazione della chiesa. Non si fa menzione del trittico, ed ammesso pure che in questa visita non si volessero inventariare le tavole d'altare, sembra poco credibile che nello squallore in cui è de scritta la chiesa, questo passasse inosservato essendo oltre a tutto nuovo; inoltre non risiedendovi il parroco doveva essere poco consigliabile lasciarlo incustodito. E' quindi presumibile che fosse ancora a Firenze o presso il parroco o in una residenza dei Castellani che non poteva essere la fortezza di Vanni in quanto già era stata temporaneamente confiscata. Lo stesso vescovo Federighi tornò a San Giovenale in visita pastorale nel 1441. L'inventario cita gli stessi oggetti della prima visita. Questa la traduzione della relazione:

"Piviere di Cascia; Chiesa di S. Giovenale23

Giorno di Domenica 23 del mese di Luglio 1441.

Il predetto signor vescovo proseguendo la sua detta visita insieme al soprascritto signor vicario e lasciata la infrascritta chiesa di San Cristoforo a Scopeti, venne alla chiesa di San Giovenale, curata di detto piviere di Cascia di cui è rettore e prete Lando Marchionni cappellano nella chiesa di Santo Stefano di Firenze, che non vi fa residenza ma la fa officiare dal prete Nicolao rettore di San Martino di Pontifogno che perciò deve avere per l'officiatura libbre 13 l'anno ma non le riceve e... entrando in detta chiesa andò all'altare maggiore consacrato di cui si fa la festa della consacrazione il giorno I maggio e sopra il quale c'è la tavola della Vergine Maria bella..."

In questa visita si fa dunque menzione di una bella tavola della Madonna ed io credo trattarsi del nostro trittico anche se non vi è la descrizione. Mentre nella precedente visita a San Giovenale non c'era il parroco, in questa pur restando il titolare a Firenze la chiesa è officiata dal prete di Pontifogno e quindi in qualche modo è vigilata. Forse il curato prete Francesco cappellano a San Lorenzo o era morto oppure era stato sollevato dall'incarico per la caduta in disgrazia dei Castellani ed avrà consegnato il trittico al nuovo curato Lando, che lo avrà finalmente fatto sistemare sull'altare della chiesa di San Giovenale per cui era stato dipinto. Mi piace ricordare che il nuovo curato era cappellano a Santo Stefano al Ponte, parrocchia dei Castellani di cui era parroco Michele nipote di Vanni, il quale era molto legato al pievano di Cascia. Nella relazione della visita pastorale del 23 Maggio 1427 compiuta dal vescovo di Fiesole Guglielmo Becchi, a San Giovenale, dove il parroco Bartolomeo Monaldi dice esserci 60 anime, così si legge:

"In detta chiesa è l'altare maggiore con tavola poverissima"24. A distanza di 50 anni dal 1422 il trittico sarebbe quindi indicato o come in cattive condizioni o non più rispondente al gusto dell'epoca.

Dopo il concilio di Trento nella seconda metà del 500 il trittico deve essere stato tolto dall'altar maggiore se nel 1640 si legge che sull'altare c'era un "Sacrum Convivium" cioè una rappresentazione dell'ultima cena de] Signore.25

Forse la tavola fu smembrata e divisa in tre pezzi andando così perduta l'originale cornice che, come ha scritto Caterina Caneva, doveva essere molto bella, "intagliata e dorata con colonnine tortili, secondo i più diffusi modelli contemporanei".26 Finalmente nell'inventario del 23 Agosto 1711 abbiamo la descrizione precisa del nostro trittico e in seguito il curato Matteo Nuti il 20 Maggio 1718 ci da una preziosa e precisa descrizione della tavola riferendo inoltre: "L'altar maggiore è un quadro fatto a piramide col suo ornamento di legno fatto dal Reverindissimo Signor Gio: Cosimo Papi il quale lo rifece nel 1681." Quindi il trittico nel 1681 deve essere stato messo insieme e vi fu fatta la cornice a listello, coprente l'iscrizione, che solo col recente restauro è stata rimossa.Il curato Zanobi Tabarrini l'8 Agosto 1738 ci descrive così la sua chiesa di San Giovenale: "A mano destra è la strada, a mano sinistra la casa presbiteriale. Davanti alla porta maggiore una piccola piazza quale serve di ci mitero. Ci sono tre altari. Il primo dedicato a S. Giovenale vescovo di Narni e titolare della medesima, il secondo di S. Diacinto, il terzo di S. Filippo Neri. L'altare di S.Giovenale, che è l'altare magiore dedicato a detto santo è collocato in faccia al muro, che è in faccia alla porta maggiore alla chiesa, et è posto in mezzo di due usci, per i quali si va nella sagrestia. A quest'altare vi è un quadro, che rappresenta in mezzo la Vergine Santissima con il bambino Gesù in collo, corteggiata da due angeli, da mano destra S. Bartolomeo e S. Biagio, e da mano sinistra S. Giovenale e S. Antonio abate. Questo quadro fu dipinto l'anno 1422".27 Il bravo curato sottolineò due volte la data per richiamare l'attenzione sull'antichità del dipinto. Anche i parroci di San Giovenale dell'800 e del'9OO tennero in gran pregio il nostro trittico che andava sempre più deteriorandosi ed alcuni lo ritennero di scuola masaccesca, anche se l'ispettore delle Regie Gallerie, Guido Carocci, giornalista e storico, dopo una sua visita alla chiesa di San Giovenale nel 1890, attribuì la tavola genericamente alla scuola senese dandogli un valore di circa 1000 lire. Fa tenerezza sapere che il parroco, durante l'ultima guerra, al passaggio del fronte temette che il suo trittico fosse trafugato dai tedeschi sempre alla caccia di opere d'arte, per cui, non ritenendo sicure la chiesa e la canonica, lo nascose dietro al bandone a capo del letto del suo colono Bettini Renato. Negli anni Cinquanta del nostro secolo era parroco di San Giovenale Don Renato Lombardi amico dell'allora architetto Polesello (ora padre Angelo). Pochi giorni dopo la Pasqua del 1958 il Polesello fu da don Renato e di sera, prima di cena, a lume di candela mancando l'energia elettrica, salì sull'altare per osservare meglio il dipinto. Egli giudicò allora che fosse un Masaccio o quantomeno opera della sua scuola , ricordando s i della Madonna di Pisa nella descrizione del grande valdarnese Mario Salmi. L'architetto Polesello insistette onde don Renato chiamasse l'incaricato di zona della Soprintendenza che all'epoca era Luciano Berti, perché si occupasse del dipinto. Don Renato seguì il consiglio, come scrisse in una lettera del '62 ora nell'archivio vescovile di Fiesole, e dopo qualche tempo il Berti venne a San Giovenale. Condividendo quanto asseriva il Polesello, il Berti nel 1961 fece portare il trittico a Firenze per esporlo, prima di restaurarlo, alla "Mostra di Arte Sacra Antica delle diocesi di Firenze, Fiesole, Prato" che si tenne in palazzo Strozzi dal I Marzo al 20 Aprile. L'opera fu così catalogata al N. 2878 "Stile di Masaccio: Trittico Reggello, S. Giovenale a Cascia. Reca Madonna col Bambino e due angeli, e ai lati quattro santi. 'opera, finora sconosciuta, è stata scoperta dal Berti il quale si riserva di approfondire lo studio in relazione agli inizi del sommo maestro". In effetti in un secondo tempo, attraverso un'indagine critica approfondita convalidata anche dai risultati del lungo restauro, Luciano Berti ha inserito l'opera nel percorso pittorico di Masaccio in maniera criticamente ineccepibile. In occasione della mostra il trittico dopo essere rimasto per secoli alla venerazione dell'umile gente di Cascia, ritornava, mal ridotto e bisognoso di restauro all'ammirazione del colto pubblico fiorentino nella Firenze che l'aveva visto nascere. La storia successiva è ormai di pubblico dominio. Mi piace solo ricordare come il ritorno del trittico nella sua terra lo scorso 18 Dicembre, è stato salutato, chissà per quale volere della Provvidenza, da un pievano di Cascia nativo della parrocchia di San Giovenale: il bravo Don Ottavio Failli, al quale rivolgo il mio ringraziamento per quanto ha fatto e farà per l'incremento della cultura, la valorizzazione del nostro territorio, l'elevazione sociale e cristiana delle nostre popolazioni.

Per finire, come cittadino di questo Comune di Reggello, come ricercatore della storia del nostro territorio, mentre ringrazio l'Amministrazione Comunale per aver organizzato questo interessante convegno insieme alla Soprintendenza ai beni artistici e storici di Firenze ed in particolare alla dott. Caterina Caneva che lo ha magistralmente preparato e condotto, vorrei evidenziare come la nostra terra fu veramente amata dai più grandi umanisti del 400, che ritrovarono nel paesaggio la classicità di Roma. In questi luoghi ebbero residenza per lunghi perio di, Marsilio Ficino, che amava filosofare nelle ville dei Cavalcanti di Torre a Monte e della pieve a Pitiana; il Machiavelli che meditò le sue Istorie Fiorentine nel piano di Cascia ai Merenzi ospite dei Carnesecchi; il Poliziano che abitò nel castello di Vanni ed ebbe il patronato della chiesa di Rota e, tra i maggiori artisti, il Ghiberti che ebbe possedimenti a S. Donato in Fronzano. Inoltre durante queste ricerche, ho potuto accertare che il grande aretino Leonardo Bruni, cancelliere per oltre 30 anni Casa quattrocentesca di S. Giovenale della repubblica fiorentina, possedette la fortezza di Vanni dal 1435 fino alla sua morte nel 1444. II Bruni, contemporaneo del Masaccio, fu uno dei rappresentanti più tipici dell'umanesimo, con vocazione politica oltre che letteraria, derivando dagli antichi il senso concreto dellavita. Amava intensamente l'amenità di questi luoghi dove si sentiva appagato nello spirito. Dopo aver percorso mezza Europa, al seguito dei papi, al suo ritorno dal Concilio di Costanza nel 1415, essendo rimasto disgustato alla vista "dei barbari castelli" dell'Alto Adige, così scriveva al caro amico Niccoli: "Veramente ogni qualvolta io sono andato pellegrinando, non soltanto ho ricercato l'umanità e l'indole della nostra gente. Infatti nelle altre nazioni è insito per natura una qualche cosa di diverso dai nostri costumi, di ripugnante al nostro carattere; e come il sapore del vino Falerno è differente da quello di Terracina, allo stesso modo mi sembra che gli uomini traggano dalla terra stessa dove nacquero il sapore, per così dire dell'indole e dell'ingegno".28 E proprio il valdarnese Masaccio sentì ed espresse le feconde virtù e le ingenite energie delle sue genti. Non conosciuto si mosse giovanissimo dal Valdarno, andò a Firenze dove recepì con immediatezza le nuove idee umanistiche e con la sua arte incarnò l'anima stessa della sua terra natia, i suoi colori la sua amenità; ed anche se morì a soli 27 anni, impresse un nuovo corso alla pittura. Nel 1901 si celebrò in tono minore il V centenario della nascita del nostro pittore e sul `'Marzocco" il prof. Chiappelli così scriveva il 21 dicembre 1901.29 "Quando io ebbi l'onore tre anni or sono, nell'epoca vera del centenario, di proporre per primo le onoranze a Masaccio, avrei sperato che non solo la terra di S. Giovanni, si anche la città di Firenze avesse adeguatamente risposto; giacché Masaccio fiorì in Firenze. Ora la vera e degna onoranza a Masaccio sarebbe il restituire l'antica luce alla Cappella Brancacci, vero santuario sacro dell'arte, sottrarla all'uso del culto, o almeno, provvedendola di una solita cancellata, proteggerla dalle possibili ingiurie umane: e infine liberarla dalle sovrapposte pitture decorative del secolo decimo-ottavo, le quali spostano ed alterano il tono degli antichi dipinti. Sembra incredibile che in tanta nobile gara per restituire i monumenti alla loro pristina forma, non si sia provveduto a questo che è fra i veramente insigni. Ma è lecito augurare che un giorno Firenze saprà adempiere degnamente l'alto debito suo verso il figlio immortale della sua terra.30 E Firenze ha finalmente adempiuto al suo debito. Tra 12 anni cadrà il VI centenario della nascita del Masaccio ed io credo che questo convegno, tenutosi nel suo Valdarno, debba come ritenersi l'inizio dei festeggiamenti. Questo XX secolo ha molto valorizzato il nostro pittore in particolare per me rito di tanti illustri studiosi e critici come i presenti; mi piace rivolgere, tuttavia, un grato pensiero al già citato Alvaro Tracchi ed all'insigne prof. Mario Salmi che proprio nel 1931 pubblicò una splendida monografia sul suo antico conterraneo. La nostra generazione può essere orgogliosa perché agli uomini del Duemila consegnerà una cappella Brancacci restituita al suo antico splendore, e questo splendido trittico per secoli rimasto sconosciuto riproposto allo studio ed all'ammirazione dell'intera famiglia umana.

NOTE

 

1) B. Berenson, Diari 1947-1958, Firenze 1975; A. Droandi, Pratomagno, Arezzo 1974.

2) A. Tracchi, Via Cassia Alla ricerca del tracciato della via Cassia nel tratto Chiusi- Firenze, in "L'Universo", XLIV,4, 1964, p. 667 sgg.

3) A Tracchi, Dal Chianti ai Valdarno, CNR-Roma 1978.

4) A. Simonetti, Adalberto I Marchese di Toscana e il saccheggio di Narni

dell' 878, in "Bollettino della Regia Deputazione di Storia Patria per l'Umbria" VII, 1901, pag.16-19.

M Salmi, Un problema storico-artistico medievale (a proposito di un mosaico scoperto nel Duomo di Narni), in "Settimane di studio del Centro Italiano di Studi sull'Alto Medioevo di Spoleto", VI Spoleto 1959.

5) L. Pani Ermini, Il culto di S. Giovenale nell'Italia centra/e: le testimonianze monumentali, in "Bollettino della deputazione di Storia Patria per l'Umbria", LXXV,1978, pp.1-29.

LP Ermini, Le memorie archeologiche e il culto di S.Giovenale, in "Atti del convegno Il Paleocristiano nella Tuscia", Viterbo 1979.

6) "La Parola", settimanale diocesano di Firenze, 25-12-1983

7) La trasformazione della chiesa fu fatta fare dal prete Alfonso Battisti come

si piò leggere nelle iscrizioni sotto il loggiato della chiesa stessa.

8) Sappiamo, infatti, che anche nel 1367, quando Benaccio Velluti fu incaricato

dal Comune di Firenze di fortificare i paesi e castelli di Ostina e di Cascia, S. Giovenale era ancora unita a S. Tommaso ad Ostina e quindi l'acquisto dei Ca-

stellani è successivo. Mons. Raspini in Masaccio e l'Angelico. Due capolavori della Diocesi di Fiesole, Firenze 1984.

9) F. Antal, La pittura fiorentina e il suo ambiente sociale nel Trecento e nel primo Quattrocento, Torino 1960.

10) Archivio di Stato Firenze (A.F.S.). Catasto 1427. S. Croce. Carro, II, 28, 155v.

Simone è detto avere 34 anni. Iacopo anni 31.

11) A.F.S. Notarile antecosimiano. Notaro Angiol di Piero da Terranuova, 680

Carta 178.

12) Biblioteca Laurenziana Firenze. Archivio del Capitolo di S. Lorenzo N 2407

Carta 125r, 127v. Francesco degli Organi o Ser Francesco di Bartolomeo nostro

cappellano et suonante degli organi. L. 6 l'anno.

13) C. Gutkind, Cosimo de' Medici. Il Vecchio, Firenze 1940.

14) Vita di Masaccio da S. Giovanni di Valdarno Pittore, G. Vasari in "Le vite

de' piú eccellenti pittori, scultori e architettori", edizione del 1568.

14 bis) La presenza congiunta in San Lorenzo di Brunelleschi, Masaccio ed il

curato di S. Giovenale potrebbe far pensare ad una affascinante ipotesi che sia

stato Brunelleschi a consigliare l'impiego di Masaccio.

15) U. Procacci, Masaccio, Firenze 1980, pag. 14.

16) Lo spedale si chiamava di Santa Maria Castellana dal cognome della famiglia del suo fondatore cosi come il castello di Vanni si chiama Torre del Castellano. II testamento di fatto è conservato negli Archivi di S. Maria del Bigallo di Firenze, pag. 79. Filza I delle Giustificazioni.

17) A. Parronchi, Donatello e il potere, Firenze 1980, pag. 34.

18) Vedi anche "Corrispondenza" anno IX numero 1. Fiesole Pentecoste '89.

A. Polesello, Col Masaccio di S. Giovenale.

19) N. Machiavelli. Istorie Fiorentine , ed. Firenze 1927

20) Archivio Vescovile di Fiesole V, 2. c. 99v.

21) Forse si riferisce ad una reliquia di legno portata dai "luoghi Santi" dallo

zio Bartolomeo gerosolimitano già citato.

22) Arch. Vescovile Fiesole. Visita Pastorale 1436. XIX, 1. n.12 Inventario c.

109. 5.5.

23) Archivio Vescovile di Fiesole V, 3, visita 45 c. 60.

24) Archivio Vescovile di Fiesole V, 6, visita pastorale 1472-1473.

25) Arch. Vescovile di Fiesole - XIX, 4 n. 244 anno 1640: sono inventariati solo

i beni mobili.

26) AA.VV., Masaccio Restituito, Dicembre 1988

27) Arch. Vesc. Fiesole. Inventari.

28) B. Barbadoro: Gli umanisti aretini Vol. VIII degli "Annali della Cattedra Pe-

trarchesca" Anno 1938 - XVI.

29) "Marzocco" di Firenze del 21 - XII - 1901.

30) A. Chiappelli. Pagine d'antica arte fiorentina, Firenze 1905. pag. 105.

 

 

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Ultime registrazioni del notaio Santi di Giovanni di San Miniato a Sco:

Pag. 264v 8/11/1428

I capifamiglia di Ostina (primo Luca di Luca Carnesecchi) nominano due rappresentanti, Antonio Biagi e Giovanni di Antonio, che vadano a difendere l'onorabilita' del Rettore di Ostina Antonio di Paolo presso la Diocesi di Fiesole. 

 

Dr Paolo Piccardi

 

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Articolo della Prof. Anna Padoa Rizzo

 

 

Tommaso di ser Giovanni di Mone , detto Masaccio, nacque a Castel San Giovanni ( oggi San Giovanni Valdarno) , nel contado fiorentino, il 21 dicembre 1401. E' questa una delle poche notizie biografiche certe che possediamo su di lui, risultando da una fonte indiscutibile, la viva voce di suo fratello, Giovanni di ser Giovanni detto lo Scheggia, registrata da un contemporaneo, Antonio Manetti, biografo di Filippo Brunelleschi: " Masaccio pittore, uomo maraviglioso[…]A dì 15 di settembre 1472 mi disse lo Scheggia suo fratello che nacque nel 1401 el dì di San Tomaso apostolo, ch'è a dì 21 di dicembre".
Sappiamo poi che rimase orfano del padre ser Giovanni, notaio, nel 1406 ( non si conosce la data precisa), quando monna Jacopa, sua madre, aspettava un altro figlio, cui fu imposto il nome del padre morto da poco: questo Giovanni di ser Giovanni, detto lo Scheggia, fu anche lui pittore, e sopravvisse a lungo al fratello.
Il nonno di Masaccio, Simone ( Mone) di Andreuccio, era immigrato insieme a un suo fratello Lorenzo, a Castel San Giovanni da Gaiole in Chianti nella seconda metà del Trecento ( U. Procacci 1932), ed esercitava la professione della falegnameria, ottenendone buon reddito e una posizione sociale sempre più consolidata, tanto che il padre di Masaccio, Giovanni, proseguì gli studi divenendo notaio: una famiglia dunque benestante, che permise ai due fratelli orfani di compiere i loro studi non solo elementari e di avviarsi ad una professione di artigianato artistico.
E' probabile che Masaccio sia rimasto in patria fino circa ai suoi sedici anni, compiendo lì anche un primo apprendistato nel campo dell'artigianato artistico , quasi certamente nella bottega del nonno paterno: è possibile infatti che , dopo le seconde nozze di sua madre ( non se ne conosce la data precisa, ma circa il 1412) con Tedesco di maestro Feo, un anziano speziale, più volte vedovo, suo compaesano, Masaccio, a differenza sembra del più piccolo fratello Giovanni, sia rimasto affidato per lo più alle cure della famiglia paterna, in virtù di una usanza largamente diffusa al tempo.

Secondo le ricerche di Ugo Procacci, Masaccio giunse a Firenze alla fine del 1417, dopo la morte del patrigno Tedesco, quando sua madre prese in affitto una casa in città , nel popolo di San Niccolò Oltrarno da monna Piera de' Bardi, certo destinata all'abitazione del figlio.
Non è certa, seppur assai probabile, la notizia , riportata in un documento che ne trascrive un altro più antico e perduto, secondo cui Masaccio, definito "dipintore", nel 1418 fece da mallevadore per l'iscrizione all'Arte dei Legnaioli di un suo conterraneo, Neri di Cenni Colci. Questo è un elemento importante per certificare il costante legame di Masaccio con la terra natale (in tutti i documenti d'altronde è indicato come "da Chastello San Giovanni") ed anche col mestiere di "legnaiolo" che era del nonno e dello zio paterno, e cui era con certezza legato suo fratello Giovanni; peraltro nell'Estimo di Castel San Giovanni del 1426 tutti e due i fratelli , Masaccio e Giovanni, sono detti "cassai", termine da non considerarsi una sorta di cognome , bensì indicante il mestiere ( si confronti la stessa dizione nell'Estimo del nonno Mone di Andreuccio del 1402; documenti in U. Procacci, 1932).
Non si sa niente dell'attività di Masaccio a Firenze in questo tempo, ma è pressoché certo che egli dovette frequentare , come apprendista, una bottega di pittura, secondo la necessaria prassi del tempo per poter esercitare il mestiere dopo l'iscrizione all'Arte , che per Masaccio avvenne il 7 gennaio 1421 secondo lo 'stile fiorentino', quindi 1422 nello 'stile comune' ( cfr. i documenti di Masaccio raccolti recentemente da J. Beck, 1986, doc. VII).
Pochi mesi dopo l'iscrizione all'Arte dei Medici e Speziali ( cui appartenevano i pittori), troviamo la prima opera pittorica che può essere riferita a Masaccio, il trittico oggi conservato presso la pieve di San Pietro a Cascia (Reggello), datato 23 aprile 1422: fu ritrovato in cattivo stato di conservazione nella chiesa rurale di San Giovenale , per il cui altare maggiore fu eseguito ( Padoa Rizzo, 2000/ 2001), nel 1960 da Luciano Berti che lo attribuì a Masaccio con sicurezza ( 1961) seguito poi, dopo qualche incertezza, da quasi tutti gli studiosi . Rappresenta la Vergine col Bambino in trono , due angeli e quattro Santi, Bartolomeo, Biagio, Giovenale e Antonio Abate.

In esso, lo schema tradizionale e il fondo oro non possono tuttavia celare l'atteggiamento mentale del tutto innovativo che presiede alla sua realizzazione, nell'impianto prospettico calibrato e unitario malgrado la spartizione a trittico, e nella solidità plastica delle figure , non meno che nell'uso delle lettere in capitale classica dell'iscrizione ( è la prima volta nella pittura su tavola) e della illuminazione naturalisticamente indicata da sinistra e razionalmente distribuita in conseguenza.
Ciò fa ritenere che l'apprendistato di Masaccio, pur svolto certamente in una bottega fiorentina di carattere tardogotico quali erano tutte quelle del tempo, si sia però sostanziato attraverso la frequentazione degli artisti novatori che, negli anni tra il 1415 e il 1420 operavano a Firenze, impostando su nuove basi le forme dell'arte, Brunelleschi prima di tutti , e Donatello suo "amicissimo": i maestri ai quali , secondo il Vasari, Masaccio sempre si rifece " seguitando sempre quanto e' poteva le vestigie di Filippo e di Donato, ancora che l'arte fusse diversa".
Certamente, in questa fase non c'è alcuna traccia di un qualsivoglia rapporto con Masolino (d'altronde non ancora rientrato a Firenze, cosa che avvenne solo nel settembre dello stesso anno 1422), che di lì a poco ( forse meno di due anni dopo) divenne il suo partner costante, in una serie di opere fondamentali e certe, la Sant'Anna Metterza , la cappella Brancacci al Carmine, il polittico di Santa Maria Maggiore a Roma ed anche, secondo gli studi più recenti, il trittico Carnesecchi per Santa Maria Maggiore a Firenze ( Frosinini, 2001/2), che potrebbe essere la prima loro opera in collaborazione: in esso, Masaccio eseguì la predella , della quale si conserva un unico scomparto, quello che stava sull'estrema destra, con la Storia di San Giuliano ( Firenze, Museo Horne).
Siamo giunti in questo modo al 1424 circa, anno in cui Masaccio ( al pari di Masolino) si iscrive anche alla Compagnia di San Luca.

All'anno successivo, 1425, risale la prima notizia certa di una bottega di Masaccio, posta nel popolo di Sant'Apollinare e dunque sparata dalla sua abitazione , che in questo tempo poteva già essere non più nel popolo di San Niccolò Oltrarno come al momento della iscrizione all'Arte dei Medici e Speziali, bensì nella attuale via dei Servi, nel popolo di San Michele Visdomini, dove è indicata nella autografa ''portata'' al Catasto del 29 luglio 1427: il 5 giugno 1425 infatti a Masaccio viene versato un compenso, intestato anche ad un altro pittore, Niccolò di ser Lapo, per un lavoro di doratura di candelabri commissionati dalla Curia Vescovile di Fiesole.
Questa bottega , che Masaccio divideva con Niccolò di ser Lapo, è stata identificata con una appartenente ai monaci di Badia Fiorentina, ubicata in piazza Sant'Apollinare ( l'attuale piazza San Firenze) all'angolo con via Condotta , in locali posti nell'edificio stesso del monastero, sotto il "dormitorio"( A. Guidotti, in La Badia fiorentina, Firenze 1982, pp. 95- 96).
Il silenzio dei documenti circa il tirocinio artistico di Masaccio a Firenze ha scoraggiato gli studiosi dall'affrontare il problema in maniera organica : l'unico tentativo è stato quello di Luciano Berti, che in più riprese (anche recentissime , 2001) ha prospettato la possibilità di vedere Masaccio tra i molti allievi della bottega di Bicci di Lorenzo, una delle più accreditate a Firenze ancorché di impostazione tradizionalista: l'ipotesi, seppur non suffragata da alcun documento di riscontro, è tuttavia legittimata dal fatto che Giovanni di ser Giovanni, il fratello minore di Masaccio, è ricordato tra i "garzoni" di Bicci di Lorenzo tra il 1420 e il 421, ciò che può far ritenere che già prima di lui la stessa posizione sia stata rivestita da Masaccio. Studi in corso ( Padoa Rizzo) , in parte già presentati oralmente ( 29 maggio 2001), stanno mettendo a fuoco una ipotesi alternativa, basata su indizi documentari più strettamente correlati alla biografia di Masaccio stesso, ed anche compatibili con le risultanze delle ricerche eseguite nell'ambito dell'Opificio delle Pietre Dure sulla tecnica pittorica da Masaccio utilizzata nelle sue prime opere su tavola, recentemente presentate da Cecilia Frosinini ( 2000/ 2001).

Prof. Anna Padoa Rizzo

 

 

 

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Nell'anno del sesto centenario dalla nascita, Luciano Berti tratteggia un profilo del grande pittore del Rinascimento fiorentino

 

 

 

 

Il ventunesimo secolo comporta in Italia, tra i primi centenari a presentarsi, quello della nascita di Masaccio, il 21 dicembre 1401 a San Giovanni Valdarno. (Jean van Eyck era già venuto al mondo da una diecina d'anni). In quel 1401 d'altronde il Rinascimento si preannunciava a Firenze col bando di concorso per la nuova porta del Battistero, "la quale prova era dimostrazione di gran parte dell'arte statuaria": come avrebbe scritto il vincitore, Lorenzo Ghiberti, gareggiante con altri tra cui Iacopo Della Quercia, e soprattutto Filippo Brunelleschi.
E con la nascita di Masaccio ci risulta completa quella somma cinquina che poi l'Alberti, nel 1436, ormai equiparerà ad ogni "anticho et famoso in queste arti". Essendo stato il valdarnese preceduto da Brunelleschi (nato nel 1377), Ghiberti (nel 1378), Donatello (nel 1386) e Luca Della Robbia (nato tra luglio 1399 e luglio 1400). I primi tre celebrati alla loro data centenaria con rispettive cospicue mostre, di cui magari la più interessante come ricognizione scientifica quella del Ghiberti; e Luca protagonista in una mostra robbiana generale a Fiesole (1998) curata da Giancarlo
Gentilini; mentre in concomitanza con il terminato restauro della Cappella Brancacci venne tenuta in Palazzo Vecchio (1990) l'esposizione L'età di Masaccio (a cura dello scrivente e di A. Paolucci) particolarmente improntata a crestomazia.
Adesso per l'attuale Centenario masaccesco il Ministero ha già varato l'istituzione di un Comitato, e nel frattempo a cura della Soprintendenza di Firenze e del Comune di Reggello, in avvio delle celebrazioni, ha avuto luogo un convegno su "Masaccio 1422. Il trittico di San Giovenale e il suo tempo" con coordinamento dello scrivente (che scoprì l'opera iniziale del maestro nel 1961) e di Caterina Caneva della direzione della Galleria degli Uffizi. Ma il predetto trittico ha avuto l'ottima ventura di veder diventare la stessa Caneva funzionaria preposta a tale zona del Valdarno, ricevendo da lei le migliori cure di tutela e valorizzazione. Dal ricollocamento nel suo territorio (1988); ad un primo convegno di studi nel 1989 (Atti pubblicati 1990, con interventi di U. Baldini, I. Becattini, J. Beck, B. Pacciani); e un secondo nel 1988 sugli "Orientalismi e iconografia cristiana" del
dipinto (Atti, 1999, firmati da G. Leoncini, M. Salem Elsheikh, F. Cardini). E il convegno si è svolto in due giornate (1-2 dicembre 2000), nell'interno suggestivo della romanica Pieve di San Pietro a Cascia, presente all'altare della navata sinistra appunto il trittico di San Giovenale, ripresentato più perspicuo dopo un approfondito esame e restauri di cui ha fruito nuovamente nel Laboratorio della Fortezza da Basso; nonché protetto da un cristallo di ultimo perfezionismo tecnico, offerto dal Lions Club Valdarno.
Mons. Timothy Verdon ha efficacemente sensibilizzato, in apertura, alla spiritualità religiosa entro cui si collocava l'opera, mentre veniva dipinta a Firenze destinata a quei fedeli di contado, in particolare per quella sua vibrata presentazione della Madonna che sostiene e offre all'adorazione il Putto nudo, ben palpitante e comunicativo: da collegarsi all'ideologia eucaristica (e il Putto difatti mangia simbolicamente dell'uva), ma vissuta adesso con una nuova sensualità, alla quale non si era negato per esempio il Beato Dominici, pur in polemica con i primi umanisti. Mentre Franco Cardini da par suo ha
prospettato, in tutto un seguito nutrito e cangiante, "i quadri mentali" per "il tempo di Masaccio": momento che così agli inizi del secolo XV, del resto, anche nella visuale degli studiosi figurativi mantiene un'ambivalenza, sia da dorato autunno del Medioevo, Huizinghiano, sia invece di iniziante primavera Rinascimentale, Burckhardtiana. Basti pensare alla compresenza fiorentina del sontuosissimo Gentile da Fabriano e di Masaccio, nel 1422-25: con antitetiche proposte in deciso antagonismo, il quale d'altronde non esclude però una fecondità di dialettica e un'alta stima reciproca, attestata anzi mercé allusioni ormai identificate. E per esempio come la Predella Quaratesi di Gentile (1425) masacceggi, assumendo un suo prosastico però sempre geniale naturalismo, in omaggio alla Cappella Brancacci; e Masaccio a sua volta svolga nella Sant'Anna Metterza un brusco contrapposto proprio alle estreme delizie della Madonna Quaratesi di Gentile, riprendendone però il serico velo prezioso sulla testa della Vergine.
Con lo svolgersi delle altre relazioni si andava quindi focalizzando, in vari settori, un contesto
per il trittico masaccesco, potendosi d'altronde avvertire l'interesse di approcci nuovi insoliti. Come quello di Gian Carlo Garfagnini che non ha trattato soltanto della cultura umanistica fiorentina in quel periodo, ma ha insistito pure su quella universitaria, nello Studio, molto meno nota mentre però qualificata ed intensa. O di Nicoletta Maraschio sulla lingua, con notazioni che si son mosse fin dalle letture dantesche in volgare presso la Badia, dietro petizione popolare, tenute da Boccaccio col 1373, sull'estremo della sua vita; eppoi la ormai orgogliosa coscienza circa l'idioma fiorentino nel Paradiso degli Alberti di Giovanni da Prato, pure espressivo di ideali e gusti altoborghesi. D'altronde proprio la sola Firenze è a quella data, centro singolarmente all'avanguardia nell'elaborazione e perfezionamento dell'italiano (ad esempio nel discorso di tipo politico) si da realizzarvisi, per ogni uso culturale, un bilinguismo di pari capacità con il latino. (E , mi domando, non giunge ad una sorta di bilinguismo anche Masaccio, da un lato con le scene, quali in lingua naturale parlata, della Cappella Brancacci, dall'altro
con la Trinità solennemente umanistica di Santa Maria Novella?).
A sua volta un seguito di interventi afferenti alla tematica territoriale dimostrava come si dovessero considerare metodiche ormai specifiche e perfezionatesi di indagine, grazie a cui pervenire a incisiva completezza di quadro. Ci si riferisce alla comunicazione di Anna Benvenuti sul culto e sulla agiografia dei santi raffigurati nel trittico di San Giovenale; inoltre, all'intervento di un'autorità in architettura medievale toscana quale Italo Moretti, sulla chiesetta di San Giovenale (edificio purtroppo estremamente rimaneggiato anche dopo la scoperta del trittico
); ed alla capillare ricostruzione, documentata, che Valentina Cimarri ha eseguito circa Famiglie fiorentine e loro possedimenti a Cascia. Risultando un denso intricato microquadro catastale che a noi posteri di oggi, delibatori di antiche vedute toscane affascinanti - dai Lorenzetti ai quattrocentisti - richiamava però il retrostante impegno lavorativo, tenace e duro, che conformava quell'amenità paesistica.
Ma anche per quanto verteva proprio su Masaccio e il suo trittico,
nonostante tutta la bibliografia frattanto prodottasi dal 1961, i nuovi apporti sono risultati innegabilmente considerevoli. Così, apponendo un suo titolo suggestivo e aderente già per il dipinto di San Giovenale - al cui centro tanto s'accampa, maestoso e calcolato, il seggio della Vergine - cioè La prospettiva in trono, Gabriele Morolli ha analizzato mercé una nuova dotazione grafica di grande copiosità, gli schemi prospettici, geometrici, architettonici, modulari, che Masaccio applica nel suo dipingere, partendo dalla prima formulazione appunto in quel trono del 1422. E che sono non soltanto di matrice brunelleschiana, come troppo si era stati indotti a ritenere, bensì alimentati dalla più complessa ricerca fiorentina del momento: tra cui aveva un prestigio comprimario specialmente quella del Ghiberti, che fu titolare insieme a Filippo per tutta una fase nella creazione della cupola del Duomo fiorentino.
Ma una nuova ricognizione testuale, sia circa l'originaria struttura del dipinto di San Giovenale (che oggi, privo di incorniciature, è ridotto a una giustapposizione elementare dei tre pannelli) sia proprio sulla
stesura pittorica esaminata con le più recenti tecniche di indagine (riflettografia, infrarossi) è stata quella operata nel Laboratorio della Fortezza da Basso:
e di cui ha dato un primo resoconto Cecilia Frosinini (che ha operato a tale lavoro con Roberto Bellucci). Risultati: si trattava forse in origine di un complesso consimile al Trittico di San Pietro martire dell'Angelico oggi nel Museo di San Marco, dove cioè altre parti minori (poi andate perdute) si soprammettevano formando una zona terminale, unificata con centina; mentre quanto alla fattura pittorica, con preparazione a acquerellatura come consueta a Masaccio, essa si è rivelata anche nelle parti stilisticamente meno avanzate (come il laterale sinistro) di una sensibilità però davvero magistrale capillarmente, con evidenze qualitative che - ha ribadito con decisione la Frosinini (cfr. anche in La Repubblica, 3 dicembre 2000; cronaca di Firenze) e si evidenziava nelle diapositive proiettate - comportava l'impossibilità di poter sminuire l'opera a un prodotto di bottega, e magari connettendo allo Scheggia (cfr. il libro recente sul fratello di Masaccio di
Luciano Bellosi, 1999).
Per di più Lucilla Bardeschi Ciulich ha dichiarato la sua piena convinzione, procedendo ad un approfondito confronto tra la calligrafia autografa di Masaccio nella denunzia al catasto del 1427, e quella nella scritta sul libro aperto del San Giovenale nel trittico, che si tratti dell'identica mano scrittoria; e d'altronde Anna Padoa Rizzo ha con finezza avvisato di non restringersi, circa il trittico, ad una unica committenza (da ravvisare in qualcuna delle principali famiglie fiorentine proprietarie nella zona, tra cui oltre i Castellani c'erano d'altronde i Carnesecchi, committenti poi di Masolino) bensì di pensare che il dipinto intendeva finalizzarsi ad una più vasta e variata collettività di fruitori, cioè quella dei parrocchiani.
Anche Dietro certe tracce masaccesche (dello scrivente) veniva a confluire sull'argomento centrale, nel suo prospettare ma con varianti ed altro equilibrio il rapporto che può essere intercorso tra Masaccio e Siena. Intanto notando che i Cassai, famiglia di Masaccio, provenivano (col nonno) da Gaiole in Chianti, attivo mercatale tra il Valdarno superiore
e Siena: e quest'ultima, ritornata dal 1404 in grande amistà con Firenze, attendeva a rinnovare in quel periodo il suo prestigio di centro artistico, con relazioni anche internazionali, e nel 1416 chiamando Ghiberti per una cooperazione al loro Fonte battesimale, cui poi lavorò anche Donatello.
Masaccio non avrà visitato per tempo Siena? Fu insensibile all'energia del Della Quercia, scultore di una Cacciata dei progenitori nella Fonte Gaia? Perfino la Sagra potrebbe essersi ispirata dalla schiera dei "maggiorenti" visibile nel Buongoverno di Ambrogio Lorenzetti. Quanto a Sassetta, nei suoi pannelli per l'Arte della Lana (dal 1423), si dimostra già il possesso di una dimestichezza con la spazialità ambientale ed il posizionarvi in scorcio le figure, non indietro rispetto all'iniziale Masaccio, ed anzi riscontrandosi punti di singolare concordanza fra i due. Poi per il 1426 già Federico Zeri prospettava un viaggio a Siena di Masaccio, quando condusse la Madonna del solletico per il cardinale Casini senese; e neppure è detto che la recettività sia avvenuta soltanto da una parte, anzi se il laterale
londinese con San Girolamo e San Giovanni Battista è un Masaccio estremo nel 1428, qui egli riprende antecedenti del Sassetta (Santini ora nella Pinacoteca di Siena).
Poi proseguendo negli anni trenta, dapprima Domenico di Bartolo sarà in una posizione d'avanguardia primorinascimentale operando anche a Firenze, perfino per l'altar maggiore del Carmine, e in relazione con lui si dimostra lo Scheggia fratello di Masaccio. Anzi, in proposito, il problematico bel Sant'Ansano (santo di culto senese) a San Niccolò di Firenze, va attribuito come proposto dalla Padovani (1994) proprio allo Scheggia, e del resto è ben assonante col suo Cassone Adimari. Ed a San Giovanni Valdarno ritorna per l'appunto un Sant'Ansano, di Paolo Schiavo ma appartenente al complesso tra cui la grande Madonna del roseto dello Scheggia, il quale vi si dimostra ispirarsi all'Angelico, a Domenico Veneziano, a Domenico di Bartolo, però soprattutto tributando un omaggio al trittico di San Giovenale con cui aveva debuttato il suo grande fratello.
E il convegno si è chiuso con una lettura in forma teatrale (voce recitante
Stefano Tamburini) di una scelta da tutto un regesto di notizie storiche e artistiche su Firenze in quel 1422 - ricercate anche all'Archivio di Stato da Marcella Marongiu - che fu l'anno allorché appunto cominciò un periodo quando "era la città ... in felicissimo istato, copiosissima d'uomini singulari in ogni facoltà". Come rievocava nostalgicamente Vespasiano da Bisticci. Diapositive proiettate sull'antica abside facevano da sussidio anche visivo, e si succedevano i nominativi delle magistrature, si svolgeva con le sue tensioni la politica italiana circostante, si creavano tra l'altro i Consoli del Mare a Pisa e si allestiva la prima flotta fiorentina, si consacrava il Carmine come poi Masaccio avrebbe raffigurato nella Sagra, partiva ambasciatore per l'Egitto Felice Brancacci; Poggio Bracciolini intanto scriveva lettere da Londra a Niccolò Niccoli a Firenze, ed erano confidenze anche molto pragmatiche tra umanisti; salivano le prime muraglie su disegno di Brunelleschi, si provvedeva a pagamenti al Ghiberti eppoi comparivano Donatello, Arcangelo di Cola da Camerino, Lorenzo Monaco, Gentile da Fabriano, Masolino, Filippo Lippi
già fraticello ecc... Masaccio ventenne si iscriveva all'Arte il 7 gennaio, appena passate le feste, come pittore in parrocchia di San Niccolò Oltrarno; e il 23 d'aprile veniva datata l'iscrizione, mezza in latino mezza in volgare, del trittico di San Giovenale: ma è il primo dipinto finora conosciuto che riusi le "lettere antiche" con la capitale umanistica, che vale tutta una dichiarazione culturale. Così, intorno al trittico, anche la cronaca globale di quel 22 evidenziava il varco al Rinascimento.

 

 

 

 

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OPIFICIO DELLE PIETRE DURE
E LABORATORI DI RESTAURO
FIRENZE
ITALIA

 

 

 

L'Opificio delle Pietre Dure (noto anche con la sigla OPD) è un Istituto autonomo del Ministero per i Beni Culturali e Ambientali, la cui attività operativa e di ricerca si esplica nel campo del restauro delle opere d'arte.

L'Istituto ha origini composite, frutto di una antica e illustre tradizione e di una moderna e articolata attività, già evidenti nella sua insolita denominazione, Nato per volere di Ferdinando I de' Medici, come manifattura per la lavorazione di arredi in pietre dure, l'Opificio venne trasformando la sua attività lavorativa, negli ultimi decenni del secolo XIX, in attività di restauro, prima dei materiali prodotti durante la sua plurisecolare storia, per poi ampliare la propria competenza verso materiali affini (lapidei, di mosaico, ecc.). In seguito alla grande catastrofe dell'alluvione del Novembre 1966 e alla legge istitutiva del Ministero per i Beni Culturali ed Ambientali del 1975, allo storico Opificio vennero annessi tutti i laboratori fiorentini statali di restauro, tranne quelli per i beni architettonici e per i beni archeologici.

Attualmente l'OPD pubblica una rivista annuale ("OPD Restauro"), è sede di una delle due scuole statali di restauro in Italia (l'altra è annessa all'istituto Centrale per il Restauro di Roma), di un museo della produzione artistica in pietre dure, di un laboratorio scientifico, di una biblioteca altamente specializzata nel campo del restauro, di un ricchissimo archivio dei restauri compiuti, di un centro di ricerca sulla climatologia. E' l'unica istituzione in Europa a disporre di 50 restauratori, 6 storici dell'arte, 1 archeologo, 7 esperti scientifici, 4 fotografi.

L'attività dell'istituto si articola per settori di restauro e di ricerca individuati in base ai materiali costitutivi delle opere d'arte. Le sedi dei laboratori sono tre: quella storica di via Alfani (sede inoltre del museo, della biblioteca e della scuola), quella moderna della Fortezza da Basso e quella di Palazzo Vecchio. Molta parte dell'attività si svolge anche all'esterno, sia sotto forma di cantieri operativi che di consulenze tecnico-scientifiche, su tutto il territorio nazionale ed in ambito internazionale.

http://www.opificio.arti.beniculturali.it/

Opificio delle Pietre Dure e Laboratori di Restauro
viale Filippo Strozzi, 1
50129 FIRENZE
ITALY

tel. +39/055/4625424
fax: +39/055/4625448

Soprintendente Cristina Acidini

 

ricordo la cortesia della dottoressa Cecilia Frosinini e del dottor Roberto Bellucci

 

 

 

Due articoli dal sito Kataweb Arte.htm

 

21 maggio 2002 - Masaccio, le proposte dell'Opificio

Ecco le ipotesi che l'Opificio delle pietre dure presenta al convegno di Firenze e San Giovanni Valdarno
Di seguito, ecco la nota dell'istituto di restauro fiorentino con alcune delle ipotesi che verranno affrontate nel convegno su Masaccio e Masolino che si tiene venerdì 24 a Firenze e sabato 25 maggio a San Giovanni Valdarno.

La proposta di una nuova ricostruzione del Polittico di Pisa. "Dalle nostre indagini risulta che le due tavole di Masaccio con il San Paolo (Museo Nazionale di Pisa) e il Sant'Andrea (John Paul Getty Museum, California) non fanno parte di questo Polittico. Entrambe, secondo la nostra ricostruzione facevano parte di un altro polittico di Masaccio, non citato dalle fonti, di cui la cui parte centrale è dispersa".
L'indagine condotta dall'OPD ha preso il via dalla parte centrale del Polittico di Pisa con la Madonna in trono col Bambino e quattro angeli (Londra, National Gallery) e la Crocefissione (Napoli, Museo di Capodimonte) confermando su base diagnostica che i due dipinti sono realizzati sullo stesso pezzo di legno. Invece per i due santi delle cuspidi laterali il legno non è dello stesso spessore di quello della parte centrale del Polittico. A questo si deve aggiungere la prova più importante e cioè che le tracce dei chiodi del sistema costruttivo non sono, sui diversi elementi, allineabili tra loro e non permettono quindi una ricostruzione coerente. Un Polittico infatti veniva realizzato con delle assi verticali, affiancate le une alle altre; il tavolato veniva poi inchiodato a delle traverse di legno orizzontali. Se i due santi avessero fatto parte dello stesso Polittico, anche se smembrato, le tracce dei chiodi avrebbero dovuto essere allineate.
L'ipotesi è che quindi i due santi facessero parte di un altro Polittico a cui Masaccio lavora nello stesso periodo del Polittico di Pisa. Di sicuro si sa che Masaccio nel 1426 è a Pisa per lavorare al polittico commissionato dal notaio pisano, Giuliano di Colino degli Scarsi, a completamento della decorazione di una cappella per la chiesa dei carmelitani della città. Il notaio a più riprese esige garanzie da Masaccio che porti a termine il Polittico, tanto da fargli firmare un atto legale: "promissomi non fare altro lavoro che prima sarà compiuto questo, e factomen'a carta", segno che probabilmente Masaccio, mentre lavorava al Polittico di Pisa, aveva intrapreso un'altra opera. Ora secondo la ricostruzione dell'OPD l'altro lavoro su cui Masaccio era impegnato a Pisa era un secondo polittico a cui appartenevano le tavole del San Paolo e Sant'Andrea.

La nuova ipotesi di ricostruzione del Trittico Carnesecchi. Ancora oggi non sappiamo niente di certo circa le occasioni che fecero iniziare la collaborazione tra Masaccio e Masolino, esiste comunque l'ipotesi che l'occasione di incontro possa essere stata la committenza della famiglia Carnesecchi per un Trittico per la cappella in Santa Maria Maggiore a Firenze. Questa famiglia aveva beni e possedimenti nelle campagne intorno a San Giovenale, ed un suo membro commissionò nel 1423 la Madonna dell'Umiltà a Masolino (Brema).
Del Trittico Carnesecchi sopravvivono oggi soltanto due pannelli: il San Giuliano di Masolino (Museo di Arte Sacra di Firenze) e il pannello di predella con le Storie di San Giuliano attribuita a Masaccio (Museo Horne di Firenze). Faceva parte del Trittico anche una Madonna che fu rubata negli anni '20 del Novecento da una chiesa di Novoli. A Montauban in Francia esiste un altro scomparto di predella con Storie di San Giuliano. Fu acquistata nell'Ottocento sul mercato antiquario di Roma dal Ingres. Alla sua morte fu collocata nel Museo a lui dedicato e successivamente attribuita a Masolino.
Fino a adesso si riteneva che la predella di Montauban di Masolino potesse far parte del Polittico Carnesecchi ma le indagini dell'OPD hanno dimostrato che invece la predella del Polittico è quella di Masaccio al Museo Horne di Firenze, infatti è dipinta sulla stessa tavola di legno del San Giuliano di Masolino e presenta la stessa tecnica e tipo di preparazione.

La piena autografia di Masaccio del Trittico di San Giovenale . L'OPD indagando per la prima volta il disegno preparatorio del Trittico di San Giovenale , ha rivelato che la tecnica d'esecuzione è identica ad altre opere di Masaccio. Per esempio l'uso di costruire volumi attraverso delle forti ombreggiature, caratteristica questa che non si ritrova nelle opere degli altri artisti di ambito masaccesco, le cui opere sono state indagate e sottoposte agli stessi tipi di esami. Artisti vicini a Masaccio e spesso indicati dalla critica come probabili autori del Trittico, come Giovanni di Ser Giovanni detto Lo Scheggia, fratello di Masaccio, o Andrea di Giusto, ecc.
Inoltre sempre dalle indagini risulta che il Trittico di San Giovenale, considerato un'opera giovanile, "rivela invece una serie di consumatezze di mestiere e abilità tecniche che non permettono di ritenerla tale". Certamente nel 1422 Masaccio, sia pur appena ventunenne, aveva già alle spalle una solida posizione economica e una consolidata esperienza di mestiere. Anche se ad oggi non è possibile sapere presso chi e come abbia conseguito tale abilità di mestiere.

 

Alcuni elementi riscontrati nel Trittico di San Giovenale avvalorerebbero l'ipotesi che Masaccio abbia avuto una formazione da miniaturista. Per esempio la linea rossa di contorno delle figure, non riscontrata al momento in nessun altro pittore fiorentino dell'epoca, tra i quali invece era assai comune la linea di contorno nera, raccomandata anche dal Cennini.
Ma in quali ambiti Masaccio avrebbe potuto farsi una formazione di miniaturista? Per capire questa ipotesi bisogna partire dalla vita di Masaccio. Si sa che era figlio di un notaio, ser Giovanni di Mone, e che era rimasto orfano precocemente. Con molta probabilità Masaccio era rimasto nella famiglia del padre, mentre il fratello Giovanni, ancora molto piccolo alla morte del padre era stato cresciuto dalla madre, nella famiglia del secondo marito. La professione notarile era una delle più prestigiose nella società dell'epoca e dava adito ad un certo status che si estendeva anche ai membri di famiglia. Non a caso sia Masaccio che lo Scheggia continueranno a farsi chiamare "di ser Giovanni" per tutta la vita. Gli esempi potrebbero essere innumerevoli, ma per limitarsi alla cerchia di frequentazioni di Masaccio, basta citare il Brunelleschi: "Filippo di ser Brunellesco". Il legame di Masaccio con il mondo notarile deve essere rimasto sempre forte tanto che la prima opera commissionatagli a Firenze fu un affresco: S. Sant'Ivo e i pupilli, per la Badia Fiorentina, proprio di fronte alla sede dell'arte dei Notai. Di più, il santo era il patrono dei notai, mentre i pupilli erano i bambini orfani di padre in età minore. Inoltre si sa che l'unica bottega che i documenti connettono a Masaccio fu quella in Sant'Apollinare, condivisa dal 1425 con Niccolò di ser Lapo. La zona è l'attuale Piazza San Firenze. La bottega di Masaccio era in mezzo a molte altre di cartolai, legatori, miniatori, calligrafi, che popolavano la zona, direttamente legate al monastero benedettino della Badia e alle sue numerose commissioni di materiale librario, ma anche all'Arte dei Notai. Ed è proprio a quest'ambiente che è possibile ricondurre con molta probabilità la formazione di Masaccio.

Masolino. La catalogazione di alcune tecniche extra-fiorentine nella pittura di Masolino che possono fare ipotizzare, anche su questa base, una sua frequentazione di ambienti nord italiani (se non centro-europei) precedente al 1422.
Masolino è documentato a Firenze nel 1422, aveva circa 38 anni. Dalle indagini sulle opere di Masolino emerge che l'artista impiegava tecniche usate in ambito extra fiorentino, come per esempio l'uso di costruire gli incarnati senza il verdaccio; oppure l'uso della pittura ad olio mentre all'epoca a Firenze si usava la tempera ad uovo; oppure ancora la decorazione a foglie metalliche che a Firenze fu utilizzata da Gentile Da Fabriano; ecc. L'ipotesi che ne deriva è che Masolino si sia formato in un ambiente non fiorentino. Il padre di Masolino era infatti un "imbiancatore", un pittore di decorazioni d'ambiente, un mestiere quindi itinerante. È possibile quindi che Masolino abbia seguito il padre fuori di Firenze. Infatti anche dalle indagini svolte nei documenti di archivio non risulta nessuna traccia del padre di Masolino, segno che lavorava fuori Firenze.

 

21 maggio 2002 - Masaccio, che sorpresa

Il pittore dipinse la Trinità prima della Cappella Brancacci. Nuove ipotesi sul Polittico di Pisa e sul Trittico di San Giovenale. In un convegno molte novità sul pittore

FIRENZE - Ne mettono di carne al fuoco su Masaccio, gli studi e le indagini che verranno presentati nel convegno internazionale "Masaccio e Masolino. Pittori e frescanti, dalla tecnica allo stile" in calendario venerdì 24 in Palazzo Vecchio a Firenze e sabato 25 maggio nella Pieve di San Giovanni Battista a San Giovanni Valdarno per le celebrazioni del VI centenario della nascita del maestro. Le nuove ipotesi su Masaccio, avanzate dall'Opificio delle pietre dure, in ordine sparso sono:
primo, l'affresco della Trinità nella chiesa di Santa Maria Novella a Firenze, da poco restaurato, precede l'esecuzione degli affreschi nella Cappella Brancacci, al Carmine, e non li segue come ritenuto finora;
secondo, l'analisi del Trittico di San Giovenale a Cascia (Reggello) conferma la piena autografia masaccesca ma rivelerebbe "una serie di consumatezze di mestiere e abilità tecniche che non permettono di ritenerla un'opera giovanile", cioè dipinta nel 1422 come ha stabilito lo scopritore del dipinto, Luciano Berti;
terzo, alcuni elementi riscontrati in questa opera "avvalorerebbero l'ipotesi che l'artista abbia avuto una formazione da miniaturista";
quarto, "Dalle nostre indagini - scrive l'Opificio - risulta che le due tavole di Masaccio con il San Paolo (Museo Nazionale di Pisa) e il Sant'Andrea (John Paul Getty Museum, California) non fanno parte del Polittico di Pisa. Entrambe, secondo la nostra ricostruzione facevano parte di un altro polittico di Masaccio, non citato dalle fonti, di cui la cui parte centrale è dispersa", e al quale il pittore attendeva nello stesso periodo dell'opera pisana;
quinto, si fa una nuova ipotesi di ricostruzione del Trittico Carnesecchi, del quale oggi sopravvivono solo due pannelli (al Museo di arte sacra e al Museo Horne di Firenze), e che getta nuova luce sugli inizi della collaborazione che portò Masaccio e Masolino a lavorare insieme alla Brancacci;
sesto, "la catalogazione di alcune tecniche extra-fiorentine nella pittura di Masolino può fare ipotizzare una sua frequentazione di ambienti nord italiani (se non centro-europei) precedente al 1422";
settimo, la catalogazione di alcune tecniche extra-fiorentine nella pittura di Masolino possono fare ipotizzare una sua frequentazione di ambienti nord italiani (se non centro-europei) precedente al 1422.

Queste novità le ha elencate la soprintendente dell'istituto di restauro fiorentino Cristina Acidini Luchinat presentando il convegno. Le proposte nascono in seguito al restauro della Trinità e a una indagine a tappeto su tutti i dipinti su tavola di Masaccio compiuta dall'Opificio con la National Gallery di Londra ed il Philadephia Museum of Art e condotta con mezzi non invasivi come la radiografia x su lastra unica (inventata da Alfredo Aldovrandi e Ottavio Ciappi dell'Opificio) e la riflettografia infrarossa a scanner ad alta definizione messa a punto dall'Istituto nazionale di ottica applicata di Firenze.

Sul fonte della datazione della Trinità di Santa Maria Novella, al contrario di quanto ritenuto finora basandosi sulla complessità della costruzione pittorica, l'opera sarebbe precedente al ciclo di affreschi della Cappella Brancacci, anche se si parla di un arco di tempo molto breve che va dal 1425 al 1427. Le tecniche d'indagine impiegate svelano nella Trinità incertezze sconosciute finora nella mano di Masaccio che fanno capire che il pittore non aveva ancora una disinvolta dimestichezza con l'intonaco bagnato. Per il rosso usa ad esempio il cinabro, ha spiegato Cristina Danti, restauratrice dell'Opificio che ha diretto l'intervento, un colore utilizzato nelle tavole e che non userà mai più dopo, così come per gli effetti di trasparenza lascia affiorare l'intonaco sottostante e non impiega il bianco calce, come farà nella cappella Brancacci dove l'artista mostra una padronanza maggiore della tecnica dell'affresco.
Anche il disegno sottostante, ricco di miniature nella parte sinistra, quella da cui cominciò, fa pensare che Masaccio affrontasse l'affresco portandosi dietro l'esperienza di altre tecniche seguite fino a quel momento. L'indagine sulla Trinità ha svelato anche un altro particolare sconosciuto: il punto di fuga non è dove era stato collocato dal restauro di Leonetto Tintori, cioè sotto il piano dove sono inginocchiati i donatori o committenti dell'opera, ma sotto il piano della scena sacra in modo che chi guarda sia ammesso all'interno della scena stessa, diventandone compartecipe. Questa scoperta, secondo Danti, rivoluziona il modo d'intendere l' umanesimo di Masaccio. Inoltre l'affresco in Santa Maria Novella non sarebbe una pala d'altare ma un dipinto celebrativo, completamente eseguito dall'artista toscano, senza aiuti, il primo della sua breve ma sfolgorante carriera.

L'indagine a tappeto su tutte le tavole masaccesche permetterebbe di definire il Dna di Masaccio, ovvero la prova calligrafica della sua mano nascosta nel disegno sottostante la pittura. Tanto il Trittico di San Giovenale quanto tutte le altre tavole si distinguono per il fatto che i volumi e le morbidezze sono già presenti nel disegno, ricco di forti ombreggiature. Secondo Cecilia Frosinini, restauratrice dell'Opificio, questa tecnica è estranea ai pittori dello stesso laboratorio come Lo Scheggia, fratello di Masaccio, le cui tavole rivelano, attraverso la radiografia, un disegno piatto.

Il convegno vanta come comitato scientifico composto da Cristina Acidini Luchinat, Umberto Baldini, Giorgio Bonsanti, Eve Borsook, Cristina Danti, Cecilia Frosinini, Gabriele Morolli e Carl B. Strehlke. Tra i relatori figurano John Shearman dell'Università di Harvard, che parlerà delle nuove ipotesi sulla committenza del Polittico di Pisa, Paolo Bensi, Luciano Berti, Ferdinando Bologna, Ornella Casazza, Keith Christiansen, Christa Gardner von Teuffel, Annamaria Giusti, Mina Gregori, Judith V. Field, Christof Mezernich. Interverranno anche alcuni restauratori italiani e stranieri quali Roberto Bellucci, George Bisacca, Fabrizio Bandini, Jill Dunkerton, Sara Fisher, Mariarosa Lanfranchi, Beatrice Provinciali e Mauro Parri. Nel simposio si parlerà anche degli affreschi eseguiti da Masolino in San Clemente a Roma, restaurato dall'Istituto centrale per il restauro di Roma, e dello studio inedito di Pietro C. Marani sugli affreschi del Battistero di Castiglione Olona, eseguiti dopo la morte di Masaccio e ancora in restauro.

Durante il convegno sarà presentato il volume The Panel Painting of Masolino and Masaccio. The Role of Technique, edito dalla nuova Casa Editrice 5 Continents, per adesso in lingua inglese, che raccoglie i risultati dell'indagine svolta dall'Opificio, National Gallery e Philadelphia Museum of Art. Gli atti saranno pubblicato entro il dicembre 2002.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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