Ser Santi di Giovanni Benciatti, notaio di Piandiscò

 

Paolo Piccardi

 

 

 

 

 

In una fredda mattina di dicembre del 1569 il granduca Cosimo I dei Medici stava attraversando la piazza del Mercato Vecchio di Firenze, quando la sua attenzione fu attratta da un particolare curioso: un pescivendolo stava avvolgendo i suoi prodotti in fogli di carta bambagina fittamente coperti da una scrittura minuta. Chiese al venditore di che tipo di carta si trattasse e gli venne risposto che erano le pagine dei registri dei notai defunti, che gli eredi vendevano per pochi soldi.

 

Il granduca era consapevole che si stava così disperdendo un patrimonio di grande valore, poiché i registri contenevano le copie degli atti rogati dai notai e che costituivano l’unico documento valido in caso di smarrimento degli originali. Inoltre, essi conservavano la storia dei rapporti interpersonali avvenuti nel corso dei secoli, dato che il notaio veniva chiamato a redigere atti riguardanti i più disparati motivi. Solo i mercanti si erano affrancati da tale obbligo, ritenendo ampiamente validi e sufficienti i loro scritti.

 

Rientrato a palazzo, il granduca convocò i Consoli dell’Arte dei Giudici e Notai e chiese loro perché non tutti i registri dei notai che avevano cessato la loro attività fossero conservati nell’archivio dell’Arte. Non ricevendo risposte soddisfacenti, emanò una provvisione per regolamentare la conservazione dei registri notarili presso gli archivi di Corte. Dal 1882 tali registri vennero trasferiti presso l‘Archivio di Stato di Firenze e costituiscono tuttora una fonte pressoché inesauribile di informazioni sui rapporti fra i cittadini del territorio, non solo di carattere patrimoniale, perché l’intervento del notaio veniva richiesto anche per altri scopi.

 

I notai erano distribuiti capillarmente su tutto il territorio del granducato e anche Piandiscò aveva i suoi, fra i quali merita di essere ricordato Ser Santi di Giovanni Benciatti, figlio a sua volta di un notaio, per l’incredibile quantità di atti rogati e conservati: ben 12 registri per un totale di oltre 6.000 pagine, con migliaia di atti che vanno dal 1368 circa alla metà del ‘400.( ASFi  Notarile Antecosimiano 18659-18670)

 

Possiamo ricavare notizie sulla sua vita dalla portata al catasto del 1427, nella quale dichiarò di essere cittadino fiorentino (infatti presentò la portata nel Gonfalone Bue del Quartiere di Santa Croce) e di avere 82 anni, nato quindi nel 1345 e scampato alla terribile peste nera che nel 1348 decimò la popolazione.

 

La sua prima moglie, Vettoria di Piero Megliorotti era morta lasciandogli i figli Angiolo, Giovanni, Battista e Jacopo, quest’ultimo frate francescano in Santa Croce a Firenze. Ebbe anche una figlia, Maddalena, che andò sposa a Piero di Simone. Alla morte della moglie, Ser Santi ricevette in eredità la metà di una casa al Canto alle Rondini, dove adesso si trova l’ufficio delle poste all’angolo fra via Verdi e via Pietrapiana a Firenze. Tale casa era affittata al lastraiolo Pace di Giusto, che pagava 9 fiorini l’anno.

 

Rimasto vedovo, si risposò con una vedova, Jacopa, figlia di Niccolo' Lapi, linaiolo di Firenze, di circa trent’anni più giovane. Con lei accolse in casa anche il figlio di lei Jacopo con la moglie Lucia e il figlioletto Angelo.

 

Nei documenti ufficiali Ser Santi si dichiarava notaio in Sant’Apollinare a Firenze, ma operò quasi esclusivamente in Piandiscò, dove abitava in località “Alle Lacciaie” in una “casa da signore” con forno, aia, orto e pergole, circondata da oliveti, pascoli e bosco. Nel podere era situata anche una casa, dove abitava Piero di Paolo Martini, che lavorava tali terre pagando l’affitto di 14 staia di grano all’anno. Nella portata al Catasto del 1427, oltre alle case, elencò vigne, oliveti, boschi e pasture per un totale di circa 30 terreni situati nelle località denominate “Tegghiaia”, “In Orbine nel Vignale”, “In Orbine in Fradiglioni”, “In Orbine nella Grillaia”, “La Rosolina”, “Foracava”, “Valle Briccolina”, “Alla Badessa”. Nonostante la quantità di beni posseduti, terminò la portata con la raccomandazione che gli Ufficiali del Catasto fossero misericordiosi, perché “Ser Santi tiene una asina in su la quale cavalca al suo bisogno perche' vecchio d' anni 82 e' poco sano e non puo' pagare e fa stento. E non ha piu' bestia niuna ne' buoi ne' asini ne' porci ne' altra bestia nel mondo ne' denari per comperarne e non guadagna niente. Ha debito con piu' persone l'anno per anno per loro cortesia. Ser Santi povero vecchio e mezzo infermo vi si raccomanda per l'amore di Dio l'aiutate che ha venduto cio' che ha potuto e non puo' vendere e fa grande stento colla sua donna e con lui insieme

 

Questo tipo di raccomandazione era abbastanza consueto, infatti gli Ufficiali del Catasto addetti al calcolo delle imposte non ne tenevano conto.

 

La lettura delle migliaia di contratti rogati da Ser Santi ci consente la ricostruzione quasi completa dei rapporti intercorsi in un lungo arco di tempo fra gli abitanti di Piandiscò, con l’indicazione dei loro nomi e, talvolta delle loro professioni. Apprendiamo, ad esempio, che fra gli abitanti vi erano degli artisti, quali i pittori Luca Baldanze e Giovanni di Niccolò Vitali, delle opere dei quali si è perduta qualsiasi traccia, ma il Vitali, calabrese abitante a Faella in una casa vendutagli da Simone Ceccarini, dovè godere di un discreto successo, che gli consentì di acquistare terreni "a casa Ciappetta" e a “Conicorto”. A San Miniato, in località “Rossolino”, abitava lo scultore Giovanni Lamberti, originario di Como. Ser Santi rogò anche un atto per Giovanni Angelo e Francesco, figli del pittore Taddeo Gaddi, che nel 1376 acquistarono un terreno a Paterno.

 

L’elenco dei capifamiglia di San Miniato nel 1389 è riportato nell’atto che li vide riuniti per l’elezione del nuovo Rettore della loro chiesa e ci consente di verificare come la quasi totalità di loro avesse già un cognome, contrariamente a quanto comunemente creduto.

 

La maggior parte degli atti rogati da Ser Santi riguarda compravendite, con la puntuale descrizione dei beni venduti, principalmente terreni, con i loro microtoponimi, che vanno ad integrare quanto è possibile ricostruire dalle portate al Catasto,. Non mancavano le finte vendite, che servivano a mascherare prestiti di denaro, congegnate in maniera tale che il venditore si impegnava, dopo un certo numero di anni, a ricomprare il bene venduto ad un prezzo prestabilito, ovviamente maggiorato.

 

I testamenti venivano stilati in registri destinati esclusivamente a tale genere di atti e non mancano notizie interessanti, quale, ad esempio l’esistenza della Compagnia dell’Assunta di San Miniato già nel 1378, quando beneficiò di un lascito di Cecco Mannini di Montecarelli, nonché i lasciti destinati ad arricchire le chiese, non solo con donazioni di terreni, ma anche di opere d’arte: nel 1374 Magio Rustechini di Castelfranco ordinò agli eredi di commissionare una pittura "in qua pitta sit imago Sante Caterine", da collocarsi sopra l’altare di San Giovanni nell’abbazia di Soffena, e se i 6 fiorini indicati nel testamento “non bastassero, si spenda quanto necessario”. Nel 1389 lo stesso Ser Santi fece costruire una cappelletta nella chiesa di san Miniato, dedicata a Maria Vergine e  a San Giovanni Battista e nel testamento del 1420 ordinò agli eredi che “si avesse a honorare con debiti honori … che di continovo si dovesse tenere un torchietto al detto Altare, il quale avesse a servire al servizio della Messa quando a quello Altare si diceva”. Nel 1424 Guidotto di Nieri Guidotti di Montecarelli ordinò agli eredi di fare, sempre nella chiesa di San Miniato, un altare con paramenti e pittura con la spesa di fiorini 60.

 

Gli inventari, compilati da Ser Santi in occasione di divisioni di beni, ci riportano solitamente uno scarno elenco di povere masserizie, ma fra l’elenco dei beni del fabbro Magio Rustechini, abitante a Faella in località “Ripalbello”, oltre agli arnesi propri del suo mestiere, troviamo anche due corazze, due maniche, una gorgera e due mazze, a dimostrazione che la sua attività di fabbro non si limitava agli arnesi usati per i lavori nei campi. In generale, l’elenco dei mobili e della biancheria è sempre di pochissime unità e il numero di letti inferiore a quello dei componenti la famiglia.

 

Nel 1371 il capitano Nobiluomo Antonio Benozzi, prima di prendere possesso del forte Cerbaia in Val di Bisenzio, chiese di compilare un inventario di quanto vi si trovava e Ser Santi elencò minuziosamente in dodici pagine bombarde, pallottole, polvere e balestre.

 

I notai venivano chiamati anche a suggellare le rappacificazioni avvenute fra litiganti (molto spesso cognate), che si ripromettevano di non pronunciare più ingiurie o maldicenze, ma non mancano anche ricomposizioni dopo fatti di sangue con coltelli o più gravi, come nel 1387, quando fecero pace Piero di Stefano Brunelli e Andrea Mini “dopo una rissa con una spada nuda, un'asta lancea e un bergamasco di ferro con reciproche ferite alla testa”.

 

Non mancano le notizie curiose: nel 1386 alcune buone persone si tassarono per poter liberare dalle Stinche Bartolo Giorgi vocato Ticcio di Castelfranco e nel 1391 Antonio Lippi, Rettore di San Jacopo di Montecarelli dovette difendersi dall’accusa di stregoneria, dalla quale l’inquisitore Tedaldo lo mandò assolto. All’epoca esisteva la schiavitù, come confermato dai contratti che sanciscono la vendita di “una schiava di 18 anni di nome Marta in lingua latina, pelle bianca e senza vizi esteriori. Fiorini 42”, “una schiava chiamata Cusa in tartaresco di 30 anni circa, pelle q.i alba cum margine in gota sinistra e uno schiavo chiamato Manacche in tartaresco di 10 anni circa. Fiorini 53” e infine “una schiava tartara vocata Giovanna di 28 anni circa pelle olivastra con molti margini in gola. Fiorini 28”. Tutti i contratti prevedevano il diritto alla restituzione entro otto giorni dalla consegna.

 

Non sappiamo quando morì Ser Santi, che nel testamento, redatto nel 1420 a Firenze in Santa Croce, alla presenza di otto frati, dispose che il suo corpo venisse sepolto in Santa Croce, qualora fosse morto a Firenze, oppure nella chiesa di San Miniato a Sco, alla quale lasciò due terreni con l’impegno che gli venissero celebrate messe in perpetuo.

 

 

 

 

 

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