Nel Giornale "Il Valdarno " del 1896 il preciso storico e giornalista " Nestore " riferiva come nel casolare dei Sergenti, vicino alla Pieve di Cascia, in una tinaia di proprietà Giovannoni, si vedessero ancora le mura della casa residenza dei Cacciaconti, risalente al XIII secolo.

Nel Catasto della Repubblica Fiorentina del 1427 l'antico casolare dei Sergenti fu dichiarato come "Casa da Signore" di sua medesima proprietà da Luca Carnesecchi.

Nelle Piante di Capitani di parte Guelfa riguardanti il piviere di Cascia della seconda metà del XVI secolo, detto casolare risulta di proprietà Bigazzi. Dette notizie sono state riprese da una conferenza,tenuta a Cascia dal Sig . Ivo Becattini, instancabile ricercatore di archivi e studioso dell'antica storia del Valdarno ,

 

 

 Cacciaconti signori della Scialenga e della Berardenga, rampolli di quel conte Winigi che nel secolo IX si dice che abbia tenuto il dominii" di Siena per gli imperatori Carolingi. Si chiamò Monte Gitisi o Monte Chi.si. Il palazzo dei Cacciaconti con la torre fu dal conte Simone di Rainuccio dei Cacciaconti lasciato nel secolo XIII in eredità allo Spedale di Siena che lo trasformò, anch'esso, in grancia.

 

 

 

 Gli Scialenghi, Cacciaconti , vicende storico dinastiche di una consorteria nobiliare del territorio senese aretinodi Giulio Pini

 Gli Scialenghi, che presero il nome da Asciano, il centro giurisdizionale più significativo del loro patrimonio, sono attestati già a partire dal sec.XI. A quest'epoca la loro azione gravita ancora verso i territori aretini e, in misura marginale, verso il senese e il grossetano.
Nel secolo successivo, l'originario nucleo familiare si parcellizza in una serie di ramificazioni parentali, ognuna delle quali tenderà nel corso dei successivi due secoli a dotarsi di un patrimonio aggregato con poteri di banno: di uno di questi, i Cacciaconti, si occupa dal cap.2 il presente lavoro.
A differenza dei loro progenitori, i Cacciaconti indirizzarono i propri interessi decisamente verso l'area senese: Serre, Sinalunga, Trequanda, Montisi, Petroio, Bettolle furono i castelli più significativi del loro vasto patrimonio, che si estendeva ad interessare anche zone dell'aretino (Foiano), del grossetano (Rocchette di Fazio), e perfino del Viterbese (Fabbrica e Bibbiano).
Del patrimonio originario degli Scialenghi passarono ad altre ramificazioni parentali Rapolano e Sarteano (ai Manenti), Armaiolo (ai Baroti), Ripa e Guardavalle (agli Ubertini), mentre Asciano, rimasto indiviso fra i vari nuclei consortili, passò, data la suaimportanza, direttamente sotto l'egemonia senese fin dagli inizi del 1200.
Dopo avere nel cap.2 trattato i primi esponenti della nuova famiglia, i capitoli centrali 3 e 4 si occupano di quelle che furono le figure più eminenti dell'intera dinastia: Guido Cacciaconti e i suoi tre figli Cacciaconte, Rinaldo e Ildebrandino, alle rispettive discendenze dei quali sono dedicati i successivi capitoli 5, 6 e 7.
L'ottavo capitolo si occupa degli ultimi esponenti della casata, che emergono come puri e isolati nomi nei secoli XVI-XVII, oltre che di due figure leggendarie, anch'esse disaggregate dall'albero genealogico: la beata Bonizzella di Trequanda, e il brigante Ghino di Tacco di Radicofani.
La trattazione dei capitoli 1, 2, 5, 6 e 7 è corredata dei relativi alberi genealogici, indispensabili per una proficua lettura del testo, del quale altrimenti si disperderebbero le linee di sviluppo, data la ripetitività degli stessi nomi ai vari livelli generazionali, sia orizzontali che verticali.
Chiudono il lavoro un'appendice, con i testi di due documenti, scelti tra quelli più significativi, e un ampio apparato bibliografico.

 

 Su Farnetella non si hanno notizie di origini antichissime. L'origine di Farnetella risale al Medioevo e precisamente in un periodo compreso tra il V secolo ed il VI secolo. Nel primo medioevo fu residenza di un ramo della famiglia dei Cacciaconti, ovvero i conti della Scialenga, poco dopo aver preso dimora nel castello di Rigomagno. Farnetella fino dalla sua origine era ubicata su un altissimo poggio, sopra l'attuale abitato, chiamato tuttora, non a caso Castelvecchio. Era circondata da forti ed alte mura e la sua posizione era inespugnabile. All'interno si trovava il Castello, descritto come potente e inaccessibile intorno all'anno 1000, che faceva parte del piccolo dominio dei nobili Barotti, che comprendeva anche San Gimignanello, Montalceto (oggi Torre S. Alberto) e Castiglioni (detto anche Castiglion Barotti) nei pressi di Rapolano Terme. Inoltre si trovavano un'ampia signoria, una corte, delle case, una Chiesetta e una Cappella. Nei primi anni del XII secolo, dopo una guerra, Montalceto, San Gimignanello e Farnetella furono occupati dai conti della Scialenga (i Cacciaconti). Il primo documento che si riferisce a Farnetella risale al 1175, un documento con il quale Siena ordinava ai conti Scialenghi la restituzione del castello di Farnetella agli antichi proprietari, i Conti Barotti. I Conti Barotti ripresero possesso, ma nel 1234 dovettero fare i conti con l'imperatore Federico II che concesse formalmente Montalceto a Ildibrandino di Guido Cacciaconti degli Scialeghi, la cui famiglia, poco dopo, assunse il controllo anche di Farnetella. Nel 1271 Farnetella fu accusata di alto tradimento verso la Repubblica di Siena, per aver dato ricetto a Ghibellini fuoriusciti dalla città. Sia per Farnetella che per Rigomagno è difficile dire se furono gli abitanti ad offrire ricetto, o se, piuttosto, non furono i Ghibellini ad invitarsi da soli. Su Farnetella, fu applicata la legge che prevedeva secondo il costituto del 1262, che i castelli del contado o distretto di Siena, che si fossero resi colpevoli di tradimento veso la Repubblica, dovevano essere distrutti e mai più ricostruiti. Il castello di Farnetella fu così raso al suolo dalle truppe Senesi del Terzo di Camollia, per ordinanza del Vicario Monforte. Nel gennaio 1295 gli abitanti di Farnetella inviarono una supplica a Siena, nella quale esponevano la propria innocenza.

 

 Montisi (Monteghisi o Montegisi, nei testi più antichi) era nel secolo XII un castello dei conti della Scialenga. Con la pace stipulata con il Comune di Siena verso il 1175, i conti si impegnarono ad offrire annualmente un cero in riconoscimento dell'alta sovranità senese su Montisi; nel 1198 la subordinazione dei conti e del castello fu nuovamente definita, e nel 1213 i capifamiglia di Montisi — un centinaio di persone — parteciparono al generale giuramento che sanciva la fedeltà a Siena delle comunità dominate dagli Scialenghi.

Montisi rimase ancora a lungo sotto la signoria locale degli Scialenghi (linea dei Cacciaconti): agli anni 1213 1232 risale una serie di documenti molto interessante per la conoscenza dei rapporti di dipendenza personale nelle campagne (Rossi).

 

 

 

 

 

 CACCIACONTI, Ugolino

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 15 (1972) TRECCANI

 

di Paolo Nardi

CACCIACONTI, Ugolino. - Figlio di Ugolino, conte di Guardavalle e signore del castello della Fratta e di Torrita, appartenne a un ramo della potente famiglia senese di conti palatini che dominò, fino agli inizi del sec. XIII, su un'ampia regione della Toscana compresa tra la Val di Chiana e Asciano (o Sciano).

Da quest'ultima località, anzi, fu derivato il cognome, Scialenghi, col quale la loro famiglia è anche conosciuta in certa letteratura storica.

Gli avi di Ugolino, tra cui Ugo, che doveva essere suo antenato in linea retta, per avere prestato aiuto all'imperatore Ottone IV nel ristabilire la sua autorità in Toscana, avevano ottenuto la solenne riconferma nel possesso dei loro feudi con diploma del 27 ag. 1210 (Arch. di Stato di Siena, Diplomatico,Riformagioni, 1210, 27 ag.).

Alla metà del sec. XIII il C. possedeva ancora i castelli di Fratta, Torrita e Guardavalle, che governava insieme con Iacomino di Iacomo, forse un suo cugino, sebbene ormai il controllo di Siena sui feudatari del contado si fosse fatto talmente pressante da deludere qualsiasi loro velleità di effettiva indipendenza. Infatti, intorno al 1250, le entrate e le uscite della magistratura di Biccherna del Comune di Siena registrano una serie di pagamenti dai quali risulta evidente che il C. si trovava in stretti rapporti con la città toscana, sebbene non esistano prove che egli pagasse un censo alle casse senesi e si trovasse pertanto in condizioni di rigida sudditanza. Nel giugno 1251 il castaldo Melanese versò nelle casse comunali la somma di 100 soldi che il C. gli aveva consegnato a titolo di rimborso per alcune spese sostenute. Successivamente, nel novembre 1253, fu, invece, il Comune di Siena ad effettuare in pro' del C. e di altri suoi parenti e conterranei un pagamento che suona ricompensa per servigi resi al governo. Un nuovo pagamentodi 14 lire e 10 soldi, a favore del C. figura con la generica motivazione "per sue spese" nei mesi di dicembre e gennaio del 1253-54. Il C. riceve nello stesso tempo altri 30 soldi. Finalmente tra le registrazioni del bimestre febbraio-marzo 1254 si accenna chiaramente al motivo di un pagamento di 36 lire effettuato a favore di un gruppo di cavalieri tra i quali si trovava il Cacciaconti. Sembra, infatti, che questi facesse parte di una guarnigione di stanza a San Quirico, durante la guerra tra Siena e Firenze per il possesso di Montalcino e Montepulciano. Nell'aprile dello stesso anno, anzi, lo troviamo tra i soldati accampati presso Montalcino e fuorusciti dalla cittadella. Per questo egli viene regolarmente retribuito. Questi fatti comprovano i buoni rapporti esistenti tra il signore della Fratta e il Comune di Siena, che poté evidentemente contare sul suo aiuto nel momento più cruento della guerra contro Firenze. Poi i pagamenti a favore del C. cessano. L'11 giugno 1254, infatti, viene firmata la pace tra le due città con la vittoria di Firenze. Ma intanto i Senesi dovevano difendersi anche dalle scorrerie compiute nel loro territorio dai grandi feudatari della Maremma collegati alla fazione dei guelfi toscani. Il castello della Fratta, che, per la sua posizione geografica, si trovava al centro delle ostilità, subì probabilmente notevoli danni, tanto da indurre il C. a chiedere un indennizzo al Comune di Siena, quale fedele alleato, indennizzo che il Consiglio generale concesse nella seduta del 3 giugno 1257, ad ulteriore conferma dello stretto legame che univa il C. alla città vicina.

Non dovette trascorrere molto tempo tra questo avvenimento e la morte del C., poiché risulta che nel 1271 il figlio Tacco gli era già succeduto nella signoria della Fratta.

La moglie, che presumibilmente era una Tolomei, gli sopravvisse ancora per molto tempo, tanto che abbiamo sue notizie sino al 1285, anno in cui - come risulta dai registri d'entrata della Biccherna - si trovava a Siena. Dal loro matrimonio nacquero, oltre a Tacco, probabilmente il maggiore, altri due figli, Federico e Ghino.

Fonti e Bibl.: Arch. di Stato di Siena, Consiglio generale, 7, c. 71; Libri dell'entrata e dell'uscita del Comune di Siena detti della Biccherna, a cura della Direz. dell'Arch. di Stato di Siena, XI, Siena 1935, p. 26; XIV, ibid. 1937, p. 129; XV, ibid. 1939, pp. 56, 101, 122; G. Cecchini, Ghino di Tacco, in Arch. stor. ital., CXV(1957), pp. 267, 274.

 

 

CACCIACONTI, Tacco figlio di Ugolino

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 15 (1972) TRECCANI

 

di Paolo Bertolini

CACCIACONTI, Tacco. - Figlio di Ugolino signore di Torrita e della Fratta, e, con ogni probabilità, di una Tolomei di cui le fonti non tramandano il nome, il C. nacque intorno alla metà del sec. XIII. Ci sono ignoti il luogo e l'anno esatto della nascita. Egli apparteneva al ramo dei conti di Guardavalle della potente famiglia feudale senese, che aveva dominato sino ai primi anni di quel secolo su di un ampio complesso di territori compresi tra la Val di Chiana, la Valle dell'Ombrone ed Asciano (Sciano), località dalla quale fu appunto derivato il cognome di Scialenghi con cui i Cacciaconti sono anche conosciuti in certa letteratura storica.

Dopo il definitivo tramonto del ghibellinismo senese, consacrato dalla disfatta di Colle di Val d'Elsa (giugno 1269), Guido di Montfort, vicario di Carlo d'Angiò, aveva instaurato in Siena un governo guelfo che, con proscrizioni e devastazioni, iniziò quella serie di guerre tra le consorterie cittadine che avrebbero finito con l'essere la rovina della repubblica. La maggior parte degli esponenti delle grandi famiglie feudali, ghibelline per tradizione, esclusi dalla vita pubblica ed espulsi dalla città, iniziarono una guerriglia nel territorio del contado, nel tentativo di opporsi alla fazione avversaria e di difendere, nei loro feudi, i resti della loro antica autonomia: soprattutto Montefollonico, Torrita, Fratta e Sinalunga furono teatro di tumulti, di occupazioni, di attentati provocati dai fuorusciti ghibellini. Nella speranza di sedare questi continui disordini, il governo di Siena accordò ai diversi feudatari di rimanere nei loro antichi possessi, purché si fossero fatti di popolo e avessero accettato podestà inviati da Siena. Il provvedimento sortì il risultato contrario: la rivolta si fece aperta e generale, tanto che i magistrati senesi dichiararono decadute ben centodiciotto signorie, perché detenute da personalità o famiglie di parte ghibellina: tra di esse sono ricordate Fratta e Sinalunga, mentre i Cacciaconti di Sinalunga, dichiarati ribelli, erano messi al bando, e veniva ordinata la distruzione delle mura del loro castello.

Succeduto, insieme con il fratello minore Ghino, al padre morto tra il 1257 ed il 1270 nella titolarità del feudo della Fratta, il C. dovette mantenere - almeno inizialmente - rapporti amichevoli con il governo guelfo di Siena. Ciò è provato sia dalla levità della pena inflittagli, nel gennaio-giugno 1271, dalle magistrature comunali per aver tentato di impadronirsi con la forza dell'altro feudo di famiglia, Torrita, che, già appartenuto a suo padre, alla morte di questo era stato invece attribuito, ignoriamo su quali basi, ad un suo parente, Iacomino di Iacomo Cacciaconti di Guardavalle; sia dall'importante incarico svolto, sempre in quel torno di tempo e per conto del Comune di Siena, da suo fratello Ghino, inviato ad Orvieto come latore di dispacci "pro securitate nostrorum ambasciatorum, qui erant apud curiam domini Regis" (Arch. di Stato di Siena, Biccherna, 47, c. 6). E quando, vittoriosa a Montefollonico la congiura contro i guelfi, espulso da Trequanda il podestà, invase e devastate le proprietà dei Senesi a Bettolle, insediatisi gli sbanditi alla Ripa, la rivolta dei feudatari, divenuta generale, si estese e sembrò vittoriosa nell'intera Val di Chiana, il C. non solo non volle unirsi agli insorgenti, ma si schierò in difesa dei cittadini senesi coinvolti nei gravi disordini scoppiati anche a Torrita, rimanendo ferito nel corso degli scontri (fine 1272-inizi 1273).

Tuttavia, negli anni seguenti il C. mutò radicalmente il suo atteggiamento nei confronti del Comune di Siena: condannato a pagare l'enorme somma di 3.000 libbre di denari per aver ucciso - ignoriamo i motivi e le circostanze di questo assassinio - un certo Montanello di Buonaventura, egli si buttò decisamente dalla parte degli insorti ghibellini che correvano il contado, e, raggruppati con i propri seguaci gli esuli e gli scontenti in regolari formazioni di cavalleria, condusse per circa un decennio una decisa e feroce guerriglia contro i funzionari e gli emissari del governo guelfo di Siena in Val di Chiana, irrompendo negli abitati spesso con l'appoggio dei borghigiani, giungendo a predare e a saccheggiare sino in Maremma e nella Valle dell'Ombrone. Accanto a lui in ogni episodio di questa disperata guerra per bande fu, come sempre per il passato, il fratello Ghino. Nel 1277 i due fratelli compivano il primo loro audace colpo di mano, destinato a richiamare su di loro l'attenzione delle autorità senesi: alla testa di un piccolo esercito di ribelli attaccarono Torrita, cercando di impadronirsene e di darne alle fiamme la fortezza. Nello scontro morì, tra gli altri, lo stesso castellano della rocca, Iacopo Del Balzo, ucciso da Guccio di Guido di Giusto de Serris. Condannati perciò nuovamente - questa volta come sediziosi e ribelli - dal tribunale del podestà al pagamento di una multa esorbitante (4.000 libbre di denari ciascuno) e messi al bando dal Comune, il C. e suo fratello Ghino proseguirono nella loro battaglia: nel seguente anno 1278 uccisero - non sappiamo se in un'imboscata o se nel corso di un combattimento regolare - un certo Andrea di maestro Iacopo ed un Rinaldello di Buonagiunta, i quali erano, con ogni probabilità (come pensa il Cecchini e come è del resto provato dall'immediata, decisa reazione dei competenti organi di quel Comune), due funzionari senesi nella Val di Chiana.

La grave minaccia per la sicurezza e per l'autorità del governo guelfo di Siena su quelle regioni, rappresentata dallo spadroneggiare delle bande armate del C. culminato nel colpo di mano su Torrita, e l'appoggio dato agli insorgenti dagli abitanti stessi della zona, i quali seguivano con evidente simpatia i progressi del movimento ghibellino di resistenza, indussero il podestà, i capitani di parte guelfa ed il Consiglio dei trentasei ad inviare a Torrita "unum ex comestabiliis masnate Comunis Senensis" con un forte contingente di soldati. Ad essi fu affidato un duplice compito: quello pregiudiziale di presidiare la fortezza, ristabilendo nel contempo l'ordine pubblico nel piccolo centro; e l'altro di reprimere la rivolta nel contado e di catturare - "si poterint capere" - e di consegnare - "si inveniant" - alle autorità comunali, perché fossero puniti in modo esemplare, "exbannitas, qui intendunt equitare ad ipsum castrum" (7 ag. 1278). Nella stessa riunione il podestà, i capitani, i Trentasei vietarono perentoriamente al Comune di Rigomagno "et aliis comunitatibus contrate" di accordare asilo od aiuto al C. od a qualsiasi altro degli sbanditi. Queste misure, che costituiscono tra l'altro un'evidente testimonianza della popolarità goduta nella zona dal movimento di resistenza capeggiato dal C., non dovettero tuttavia sortire gli effetti desiderati se nei primi mesi del 1279 egli poteva investire con grande spiegamento di forze l'abitato di Torrita, e, uccisi molti Senesi e devastate le loro proprietà, poteva stringere praticamente d'assedio nella rocca - grazie anche al valido appoggio della popolazione locale - i funzionari e la stessa guarnigione senese, distribuendo con oculatezza posti di blocco e presidi "circa castrum de Torrita" e tagliando in tal modo le comunicazioni con Siena.

La situazione, all'inizio dell'estate, si era fatta a Torrita così critica, che il 12 luglio il Consiglio si vide costretto a intervenire d'urgenza e con decisione, inviando in tutta fretta sul luogo Gualtieri di Rinaldino (forse un altro dei conestabili del Comune, definito "dominus" nella relativa delibera del Consiglio conservata all'Arch. di Stato di Siena, Consiglio generale, 23, c. 8, edita dal Cecchini) al comando di un reparto di mercenari francesi col compito di sbloccare Torrita e di difenderne il territorio "contra Taccum et Ghinum, et sui sequaces". Intanto il C., rinforzatosi nelle sue posizioni e riordinato il suo piccolo esercito, aveva attaccato con violenza e secondo tutte le regole dell'arte militare la rocca di Torrita: le bande degli insorgenti ghibellini, infatti, alla testa delle quali figuravano personalità come il senese Cecco di Giacomo soprannominato Cecco "Grasso" Guidarello di Alessandro da Orvieto ed Orlando Crispolti, secondo quanto riferiscono le fonti, "iverunt hostiliter et banderia levata ad castrum de Torrita". Per quanto ben diretto e condotto con abilità e irruenza, l'attacco venne respinto dai Senesi, sia pure con gravi perdite, probabilmente proprio grazie al tempestivo intervento del reparto di mercenari francesi condotti da Gualtieri di Rinaldino. Nel corso del combattimento cadde tra gli altri, ucciso da Ghino Cacciaconti, lo stesso signore di Torrita, Busgiadro.

La eventualità che alla base dei successi militari del C. vi potessero essere o l'appoggio occulto di influenti personalità del mondo politico senese o subdoli maneggi di consorterie cittadine e di alleati malfidi aveva anche indotto in un primo tempo (la delibera relativa è del 12 luglio) il Consiglio generale ad inviare presso i Comuni di Firenze, di Arezzo e di Lucignano, di Gargonza e di Monte San Savino (nell'Aretino) ambasciatori che raccomandassero alle competenti autorità di non dare ricetto agli sbanditi, senesi; a nominare quindi, il 1º agosto, una commissione d'inchiesta, che facesse luce sulle circostanze in cui era potuto avvenire il recente attacco a Torrita ed accertasse le eventuali responsabilità.

L'ipotesi del tradimento traspare chiaramente dalle minuziose istruzioni che furono impartite alla commissione d'inchiesta e che sono accuratamente registrate nel verbale della seduta del 1º agosto. In particolare, i signori del Consiglio generale di Siena intendevano accertare quale feudatario o quale centro abitato della zona avesse concesso asilo al C. e a Ghino, "filii quondam Ugolini de Fracta", e alle loro bande armate, prima del colpo di mano su Torrita. Volevano inoltre sapere da dove provenissero i ribelli "quando insidias posuerunt et miserunt circa castrum de Torrita, et post ipsas insidas insultum fecerunt versus dictum castrum de Torrita". Si doveva inoltre appurare perché "illi de Torrita" non avevano cercato di contrastare i movimenti e l'attività dei ribelli; e far luce sui motivi che li avevano anzi indotti ad ostacolare in tutti i modi i disegni di quanti tra loro, essendo "inimici dicti Tacchi et Ghini", avrebbero voluto scendere in campo contro gli insorti. Alla base delle misure prese tra il luglio e l'agosto del 1279 dal Consiglio generale vi era dunque senza dubbio anche il proposito evidente di riaffermare l'autorità senese sul Comune di Torrita che, appoggiando il moto capeggiato dal C., aveva dimostrato chiaramente sentimenti ostili al governo guelfo di Siena. Ce lo attesta, fra l'altro, il fatto che il contingente di mercenari francesi, inviato sotto il comando di Gualtieri di Rinaldino a presidiare la cittadina, dovette essere mantenuto - per espressa volontà del Consiglio generale - a spese di quella Comunità, "expensis Comunis et hominum de Torrita", come è detto nella delibera del 12 luglio.

Lo scacco patito sotto le mura di Torrita non bastò a convincere il C. e gli altri capi della resistenza ghibellina a rinunziare all'offensiva; nella seconda metà dell'anno essi compirono anzi uno sforzo supremo per assicurare definitivamente la vittoria al loro movimento. Tra la fine d'agosto e sino a tutto il mese di novembre il C. controllava ancora, col suo piccolo esercito, la regione, e si sentiva tanto sicuro da iniziare segreti maneggi per impossessarsi col tradimento di Torrita; mentre i fuorusciti ghibellini di Rigomagno, aiutati dagli abitanti di Lucignano, rientravano da padroni nella loro città e vi si fortificavano. Il 22 agosto, infatti, il governo senese decretava il preallarme per alcuni reparti di truppa da inviarsi immediatamente come presidio a Sinalunga, a Torrita e a Ripa, dietro semplice richiesta delle autorità o, anche, degli esponenti delle fazioni filosenesi di quei Comuni. Il 19 settembre, poi, nominava una seconda commissione d'inchiesta, che facesse luce sulla vociferata congiura per consegnare Torrita al C., e provvedeva contemporaneamente a rafforzare il presidio senese della cittadina, inviandovi un nuovo contingente di truppa agli ordini di Gualtieri di Rinaldino, il cui mantenimento era addossato ancora una volta agli abitanti del luogo. Con successive delibere dell'11 ottobre e del 21 novembre venivano date a Gualtieri di Rinaldino le necessarie direttive politiche e militari, mentre il 25 i capitani di parte guelfa ed i Sei buonomini ordinavano perentoriamente "domino Gualtherino, potestati et Consilio et Comuni castri de Torrita" di non nominare alcun magistrato od ufficiale di stato senza il consenso dei podestà di Siena.

Severi provvedimenti giudiziari erano intanto stati presi nei confronti dei capi della resistenza ghibellina. Una lunga serie di condanne si ebbe infatti in quell'anno 1279, "tempore domini Gherardi de Palatio de Brescia... potestatis Senensis" per i fatti di Torrita: a gravissime pene pecuniarie furono condannati, tra gli altri, in contumacia Guidarello di Alessandro Crispolti e Tuccio "Gaenne comitatus Aretii", per aver partecipato all'attacco della città; a morte, oltre che a pesantissime multe (10.000 libbre di danari), il C., suo fratello Ghino ed il senese Cecco di Giacomo, riconosciuti colpevoli di tradimento, sedizione e assassinio. Una multa di 200 libbre di danari fu inflitta ad un altro feudatario della regione, forse appartenente al ramo dei Cacciaconti di Sinalunga, che aveva concesso asilo a Ghino e al C., Ranuccio "frater Zeppe de Asinalongha". Tuttavia non furono né le gravissime pene inflittegli dai tribunali - alle quali si aggiunse quella della confisca dei beni - né i progressi, riportati dalle armi senesi nella riconquista delle piazzeforti e dei castelli in Maremma e nella stessa Valle dell'Ombrone, a piegare la volontà di resistenza del C., e ad isolarlo, facendogli mancare l'appoggio e la solidarietà delle popolazioni, così essenziali per ogni movimento di resistenza. La pacificazione, promossa e raggiunta dal cardinale Latino Orsini (1280), grazie alla quale furono riammessi in Siena i ghibellini e il governo dei Trentasei fu sostituito da quello dei Quindici (dal quale erano escluse le sole famiglie dei grandi), e la buona volontà dimostrata dalla nuova direzione politica indussero numerosi e qualificati fuorusciti a fare atto di sottomissione, e ad unirsi all'esercito senese nelle operazioni di riconquista. Il 10 nov. 1281 il Consiglio generale, riunito sotto la presidenza del vicario del podestà, "domino Angelo Imperatoris iudice de Urbe", concesse l'indulto e l'amnistia a quarantuno sbanditi, come riconoscimento e ricompensa dell'aiuto da essi prestato nel corso delle operazioni che avevano portato all'assedio e all'occupazione, da parte delle milizie senesi, della fortezza di Torri in Maremma. Tra i fuorusciti, già "exbanniti et condempnati", compresi nel provvedimento di grazia, vi fu anche il terzo dei fratelli Cacciaconti, Federico: questi, che non si era mai compromesso nell'attività sovversiva promossa dai suoi fratelli (il suo nome non compare mai nelle fonti a noi note tra quelli dei ghibellini condannati per sedizione e tradimento), doveva aver ritenuto opportuno riconoscere l'autorità di Siena, venendo a patti col Comune ed assicurandosi in tal modo la titolarità della Fratta e degli altri possessi ereditari della sua famiglia, confiscati al C. nel 1279. Fu così che, quando il governo dei Quindici governatori, consolidatosi all'interno, si fu assicurato, con la forza o con i trattati, la fedeltà dei grandi feudatari (anche gli altri rami della famiglia Cacciaconti si erano acconciati a riconoscere la supremazia di Siena), il C. e suo fratello, rimasti privi dell'appoggio dei loro alleati più potenti, si trovarono completamente isolati di fronte al grande nemico, e proprio quando questo si era deciso a portare a fondo, con decisione, la lotta contro i ribelli.

Ancora attivi nella Val di Chiana, dove portarono a segno una serie di audaci colpi di mano contro i presidi e le proprietà senesi, sino al 1282, quando subirono una nuova condanna da parte delle magistrature del Comune - ma questa volta per abigeato -, i due fratelli, stretti dalle milizie municipali, dovettero abbandonare in un secondo tempo i luoghi sui quali avevano spadroneggiato per dieci anni, e si ritirarono con i resti delle loro bande nella Maremma, dove si posero forse sotto la protezione - secondo l'ipotesi del Cecchini - dei Pannocchieschi. I loro nomi non ricorrono più, infatti, nelle fonti senesi sino al 1285, anno in cui, esplosa in guerra aperta l'ostilità tra i Senesi e il vescovo di Arezzo, appoggiato dai fuorusciti ghibellini e da alcuni feudatari della zona ribellatisi all'autorità del Comune dominatore, il C. e suo fratello ricomparvero coi loro armati nella Val di Chiana per portare aiuto secondo le loro possibilità al presule e ai suoi alleati. La reazione di Siena fu violenta quanto decisa. Un corpo d'esercito condotto dallo stesso podestà Guido Guidi conte di Battifolle, entrato in territorio nemico, pose l'assedio a Poggio Santa Cecilia, piazza forte per posizione e per le opere d'ingegneria militare. Da parte sua, il giudice aretino Benincasa, ch'era rimasto in Siena nella sua qualità di vicario del podestà, dopo aver soffocato nel sangue una rivolta ghibellina scoppiata in città ed aver riconquistato i castelli di Farnetella e Gargonza caduti nelle mani degli insorgenti, inviò speciali reparti di truppa a rastrellare, sotto il comando di suoi tre legati - Paolino, Nerio, Salvuccio-, l'intera Val di Chiana, "ad capiendos exbannitos" e per pacificare una volta per tutte la regione. Braccato dai militi, il C. preferì affrontare il confronto diretto con i suoi nemici: ferito e catturato in combattimento, il guerrigliero fu condotto sotto buona scorta a Siena, dove fu sottoposto a tortura e giustiziato (1285, prima metà).

I registri della Biccherna portano, annotate con la consueta precisione, la somma delle spese sostenute da Siena per eliminare il suo irriducibile nemico: 18 soldi ai legati del Comune Piero e Giovannino per i tre giorni di rastrellamento da essi compiuti "cum familia domini potestatis" nel territorio di Torrita; 27 soldi ai legati del Comune Paolino, Nerio e Salvuccio, incaricati del rastrellamento in Val di Chiana "ad capiendum Tacchum Ugolini"; 20 soldi ciascuno ai due aguzzini "qui guastaverunt seu occiderunt Tacchum Ugolini"; 5 soldi a mastro Vive de Mannaria, per aver preparato gli strumenti con cui fu torturato il Cacciaconti. Né furono dimenticate le spese sostenute per l'olio combustibile usato dalle sentinelle durante la detenzione di Tacco, per il noleggio del cavallo e della vettura con cui il C. fu tradotto a Siena, e per l'acquisto della corda necessaria a legare il prigioniero e del chiavistello nuovo per l'occasione applicato alla porta della cucina del podestà.

Il fratello del C., Ghino di Ugolino, proseguì nella sua disperata guerra per bande contro Siena moltiplicando le aggressioni e gli attentati, e facendo divampare la rivolta non solo nella Val di Chiana, ma anche nell'alta Maremma: nell'ottobre del 1286 partecipò al colpo di mano in seguito al quale, rovesciato ed ucciso Tollo, anche i signori di Prata abbandonarono Siena per passare sotto le bandiere degli insorgenti (per questo episodio le magistrature senesi lo condannarono a morte in contumacia, e confiscarono i suoi beni). Di Ghino non si hanno, tuttavia, notizie ulteriori dopo il 1289, anno in cui viene ricordato tra i principali capi delle bande ghibelline che avevano allora conquistato la piazzaforte di Chiusure (presso Asciano).

 

Fonti e Bibl.: G. Cecchini, Ghino di Tacco, in Arch. stor. italiano, CXV (1957), pp. 267-277, che fornisce le indic. bibl. e che pubblica (docc. I-XXXI, pp. 281-291)tutte le fonti diplomatiche documentarie relative al C. ed a suo fratello Ghino. Per l'inquadramento della figura del C. nelle vicende di Siena e dell'Italia, si vedano le opere generali di storia senese. Vedi inoltre: G. Gigli, Diario sanese, II, Lucca 1723, pp. 312 s.; G. Mengozzi, Doc. danteschi del R. Arch. di Siena, in Dante e Siena, Siena 1921, p. 139

 

 

Ghino di Ugolino

Tacco di Ugolino

Federico di Ugolino

 

, Iacomino di Iacomo Cacciaconti di Guardavalle

un altro feudatario della regione, forse appartenente al ramo dei Cacciaconti di Sinalunga,

 

 

 Ghino di Tacco
Nacque a Torrita dalla famiglia Cacciaconti Monacheschi Pecorai, una delle famiglie dei grandi di Siena. Cominciò ad esercitare ampiamente l'"arte della rapina", era però un gentiluomo che prima di estorcere si informava sui reali possedimenti della propria vittima, lasciandole sempre di che vivere; era persona generosa con i poveri e gli studenti.
Memorabile il trattamento riservato all'abate di Clunj, catturato mentre si recava alle acque termali di San Casciano dei Bagni per curare un mal di stomaco. L'abate venne rinchiuso e nutrito con pane e fave secche che gli guarirono prodigiosamente il male; riconoscente l'abate intercesse presso il papa Bonifacio VIII ai fini di una riconciliazione con Ghino. Il Papa si convinse e lo nominò Cavaliere di S.Giovanni e Friere dell'ospedale di Santo Spirito, titolo che annetteva una vasta commenda.

 

 

 

 

CACCIACONTI, Guido

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 15 (1972) Treccani

 

di Paolo Nardi

CACCIACONTI, Guido. - Nacque da Cacciaconte, probabilmente agli inizi della seconda metà del XII sec. Tra il 1168 e il 1175, infatti, doveva essere ancora in giovane età, poiché il suo nome non compare nei due importanti atti che sono di questi anni e che vedono come protagonisti i membri più autorevoli della famiglia - tra i quali, forse, anche suo padre - in atteggiamento di sottomissione al Comune di Siena. Il C., invece, è per la prima volta menzionato in un diploma dato da Carpineto il 5 marzo 1185, con cui Federico I prende sotto la sua protezione i beni dei Cacciaconti, concedendo loro i diritti sui castelli di Foiano e Modana, e, quindi, nell'atto di conferma sottoscritto in Palermo da Enrico VI il 25 novembre 1194. Il C. emerge, quindi, sulla scena politica negli anni in cui la casa sveva riprende un effimero sopravvento sulle città toscane controllando anche i feudatari dei contadi circostanti. Successivamente, allorché alla morte dell'imperatore Enrico VI, nel 1197, le città della Tuscia si unirono in una lega contro i feudatari dei loro contadi ed anche Siena si affrettò ad esigere un nuovo atto di omaggio da parte dei Cacciaconti il 18 febbr. 1198, il C. insieme con i capi della famiglia dovette venire in Siena per proclamare la propria sudditanza, non solo formale, agli interessi di questa città. In particolare, dovette personalmente impegnarsi ad abitare ogni anno dentro le mura di Siena per due mesi consecutivi, sia in pace sia in guerra. Unitamente agli altri si obbligò a restituire quanto sottratto agli altri feudatari del contado senese e ad offrire un censo annuale al Comune per la festa della Vergine Assunta.

Nel corso della guerra successivamente combattuta tra Siena e Montepulciano il C. - che nel frattempo doveva avere assunto la guida della famiglia insieme con Rinaldo di Ildibrandino - si trovò schierato a fianco della potente "protettrice", che si impegnò a non fare pace con i Montepulcianesi sino a quando questi non avessero reso ai Cacciaconti gli uomini delle loro terre e specialmente dei feudo di Collefrancoli. D'altra parte in quello stesso giorno - 1º ott. 1202 - il C. dovette giurare solennemente che neppure da parte sua vi sarebbero stati tentativi di comporre la vertenza, ma solo il corrispettivo impegno a proseguire la guerra a fianco dei Senesi. Il 5 apr.1205 la controversia non si era ancora risolta: infatti, il C. e altri della famiglia furono invitati quali testimoni al giuramento prestato da alcuni abitanti della località di San Quirico di Nusenna, di fronte al vescovo di Volterra, priore della lega tuscia, al fine di accertare se Montepulciano fosse sempre appartenuta al contado di Siena. Dalla deposizione di uno dei testimoni risulta appunto che i Cacciaconti presenziavano alla cerimonia in qualità di "vessilliferi" del comitato o contado senese. In un momento di grande debolezza del potere imperiale, il C. e i familiari non avevano dunque potuto evitare di contrarre legami sempre più stretti con la politica della città più vicina ai loro domini. Tuttavia, non appena l'autorità dell'Impero tornò a farsi sentire nelle vicende della penisola, il C. riprese prontamente la propria libertà d'azione. Quando nell'ottobre 1209, appena incoronato imperatore, Ottone IV di Brunswick intervenne con decisione negli affari delle città toscane per ristabilire il proprio controllo su di esse, trovò in molti feudatari della regione e, tra gli altri, nei Cacciaconti un sicuro appoggio alla propria opera. Il C., infatti, gli fu accanto specialmente nei mesi seguenti. Due importanti concessioni effettuate da Ottone nella tarda estate e nell'autunno del 1210 hanno, tra i testimoni, il Cacciaconti.

Scoppiata la guerra tra l'imperatore e il papa Innocenzo III, proclamatosi difensore degli interessi dell'altro giovane pretendente al trono, Federico di Svevia, il C. provvide subito a inviare in Puglia, nel teatro delle ostilità, alcuni contingenti di truppe in aiuto di Ottone. Ma questi dovette interrompere le operazioni nell'autunno del 1211, per dedicare le sue attenzioni alla Germania da dove giungevano allarmanti notizie di pericolose trame orditegli contro dallo stesso pontefice. Nel drammatico frangente il C. è ancora a fianco dell'imperatore, testimone ai numerosi atti compiuti da questi presso Montefiascone - sottratta l'anno precedente al dominio papale - e diretti tutti ad accrescere i privilegi a favore dei feudatari e delle città fedeli della Toscana e dell'Umbria. Nel dicembre Ottone sosta nella Tuscia centro-settentrionale ed a Prato, il 28 del mese, riunisce i signori che reggono i comitati circostanti. Il C. è tra costoro, insieme con il conte Guido Guerra e altri potenti. Certamente l'imperatore richiese loro il giuramento di fedeltà. In quel medesimo giorno il C. ricevette in feudo la rocca di Trequanda per i servigi prestati nel corso della campagna di Puglia e per il costante appoggio dato alla politica imperiale.

Dopo avere superato con abili mosse la grave minaccia suscitatagli contro da Ottone, il pontefice non esitò a provocare la definitiva rovina dell'avversario, lanciandogli la scomunica. Il gesto provocò lo sfaldamento del partito imperiale e permise ad alcune città - come Siena - di assumere nuovamente il controllo dei vicini feudatari. Il C. e la sua consorteria furono costretti a sottomettersi di nuovo al Comune senese: il 19 ag. 1213 si impegnavano infatti a versare, come per il passato, ogni 1º di agosto il censo consueto e ad obbedire agli ordini delle autorità comunali. Riuscirono tuttavia a far inserire nel trattato la clausola secondo la quale non avrebbero dovuto prestare aiuto alla città né in caso di guerra contro l'imperatore né contro Federico di Svevia. Successivamente, nell'ottobre dello stesso anno, giurarono fedeltà a Siena anche gli uomini delle terre e castelli appartenenti al Cacciaconti. Dopo questo episodio, che segna l'inizio di un nuovo periodo di assoggettamento alla politica egemonica dei Senesi, i documenti tacciono a lungo sul C.: non si è, pertanto, in grado di ricostruire le vicende della sua vita e soprattutto l'indirizzo della sua politica.

Per quanto riguarda i rapporti che lo legavano agli abitanti dei suoi feudi, ci è pervenuta una testimonianza del 1º ag. 1218, dalla quale apprendiamo che gli uomini della località di Montisi, per affrancarsi dai dazi loro imposti, giurarono tanto a lui quanto ai suoi figli Cacciaconte, Rinaldo e Ildibrandino, di pagare loro in perpetuo certe quantità di grano.

Sino al 1220 l'atteggiamento politico del C. non dà altri segni di irrequietezza. In questo anno si concluse, appunto, la crisi del potere imperiale nella penisola, con la salita al trono di Federico di Svevia. Il 22 novembre, giorno dell'incoronazione imperiale di quest'ultimo, sul Monte Mario presso Roma disposero i loro attendamenti i feudatari fedeli alla causa imperiale, intervenuti alla solenne cerimonia. Anche il C. dovette essere presente e, infatti, fu immediatamente beneficiato con la riconferma della concessione della rocca di Trequanda, effettuata già da Ottone IV a Prato, il 28 dic. 1211.

È curioso osservare come la formula della concessione sia restata invariata, riproducendo la stessa motivazione che nove anni prima aveva definito l'atto come gesto di ricompensa per i servigi resi dal C. nella guerra di Puglia, proprio contro Federico. Questo non è l'unico significativo episodio della riconciliazione tra gli interessi della casa comitale dei Cacciaconti e quelli che costituivano l'espressione della politica egemonica intrapresa dall'imperatore nelle regioni meridionali del suo dominio e quindi anche sulle città ed i contadi della Tuscia. Infatti, il 28 dic. 1222 Federico conferma al C. e ad altri della sua famiglia i possessi di Modana e Foiano. Tuttavia, ciò nonostante, il C. non riuscì a sottrarre i propri domini al controllo ed alle imposizioni delle autorità senesi. Nel 1223 egli, insieme con Rinaldo d'Ildibrandino, fu severamente multato per avere contravvenuto agli ordini del podestà di Siena, Bonifacio Guicciardi, che aveva ingiunto ai signori del contado di non permettere che il grano raccolto nei loro feudi venisse esportato oltre i confini e specialmente a Firenze. Risulta, infatti, che in taluni possessi appartenenti al C. la disposizione fu violata. Né in questa occasione ebbe modo di esplicarsi la protezione dell'imperatore. Il C. aveva, intanto, ottenuto il comando del partito filoimperiale a Siena, ma sarebbero trascorsi ancora diciassette anni prima che uno dei figli del C., Ildibrandino, potesse instaurare nella città il governo del partito ghibellino.

L'ultima notizia, che abbiamo del C. risale al 1226. In questo anno egli fece testamento, dividendo tra i figli l'ampia distesa dei suoi feudi, tra i fiumi Ombrone e Chiana. Dei feudi principali, quelli di Scrofiano e Sinalunga furono attribuiti a Rinaldo, Trequanda passò ad Ildibrandino, a Cacciaconte andarono Fabrica e Bibbiano.

Dei rimanenti alcuni restarono probabilmente indivisi, come le località di Montisi e Montorio, che Cacciaconte ed Ildibrandino si divisero in parti uguali il 4 febbr. 1233. In questo anno evidentemente il C. era già morto.

Fonti e Bibl.: Arch. di Stato di Siena, Diplomatico, 1202 ott. 1; 1205 apr. 5; 1210 ag. 27; 1213 giugno 17; 1213 ag. 19; 1218 ag. 1; 1219 febbr. 10; 1223 ott. 14; 1232 febbr. 4; Ibid., ms. A. 11:

  1. A. Sestigiani, Famiglie nobili senesi, c. 154t; Siena, Bibl. com. degli Intronati, ms. C.V. 22:
  2. U. Benvoglienti, Miscellanee, XXI, c. 96; Ibid., ms. A. V. 23:
  3. C. Cittadini, Abbozzi e frammenti di alberi di famiglie nobili, cc. 98, 104, 134, 135; ms. A. V. 16, c. 119;
  4. O. Malavolti, Historia de' fatti e guerre…, Venezia 1599, I, p. 39;
  5. G. Tommasi, Dell'historie di Siena, Venezia 1625, I, pp. 3, 173;
  6. L. A. Muratori, Antiq. Ital. Medii Aevi, IV, Mediolani 1741, coll. 576, 583;
  7. E. Repetti, App.al diz. geogr., fisico,Storico della Toscana, Firenze 1845, p. 67;
  8. K. F. Stumpf-Brentano, Acta Imperii inde ab Heinrico I ad Heinricum VI. Usque adhuc inedita, Innsbruck 1865-1881 [rist. anast. 1964], nn. 164, 195;
  9. J. Ficker, Urkunden zur Reichs-und Rechtsgeschichte Italiens, Innsbruck 1874, n. 252;
  10. L. Banchi, Ilmemoriale delle offese fatto al Comune e ai cittadini di Siena..., in Arch. stor. ital., s. 3, XXII (1875), pp. 208-210;
  11. J. F. Böhmer-J. Ficker, Regesta Imperii, V, Innsbruck 1892-1894, nn. 435, 441, 448-452, 456, 457, 1222, 12295;
  12. F. Schneider, Regestum senense, Romae 1911, nn. 312, 389, 407-408, 504;
  13. Il Caleffo Vecchio del Comune di Siena, a, cura di G.Cecchini, Siena 1931, I, pp. 17, 45, 86, 78-79, 188;
  14. R. Davidsohn, Storia di Firenze, Firenze 1956, II, pp. 35, 108-109; J. F. Böhmer, Acta Imperii selecta, Darmstadt 1967, n. 1085.

 

 

 

 

Nel 1245 Guido dei Cacciaconti ( probabilmente nipote del precedente accoglieva a Cascia nel Reggello alcuni eretici patarini in fuga da Firenze

E' un episodio non notissimo

Guido Cacciaconti aveva quindi delle proprieta' a Cascia

E' possibile che queste gli siano state confiscate

Lo studio che segue presenta alcuni interessanti documenti sulla persecuzione contro i Patarini

 

 

 

DANTE E L' ERESIA

con documenti e con la ristampa delle questioni dantesche

 

 

 

BOLOGNA : DITTA NICOLA ZANICHELLI 1899.

Proprietà letteraria.

BOLOGNA: TIPI DELLA DITTA NICOLA ZANICHELLI 1899.

 

 

a mia moglie

cristina ponzami

offro nel sedicesimo anniversario

del nostro matrimonio

 

 

Nel sesto libro della sua cronaca il Villani al capitolo trentaduesimo racconta che negli anni di Cristo 1244, Fioccata Cane imperadore dei Tartari mandò Bacho suo secondo figliuolo contro il soldano d' Aleppo, e contro quello di Turchia, che avea nome Givitadin, con trentamila Tartari a cavallo, e nel luogo chiamato Cosadach fu dura ed aspra battaglia tra detti Tartari e' Turchi, e certi cristiani che erano al soldo del soldano. Alla fine il soldano e sua gente furono sconfitti " .

Altre battaglie furono combattute se non in quell' anno, nel susseguente, e non tra Tartari e Turchi, ma tra fiorentini e fiorentini e dentro le stesse mura della città; e vi presero parte parecchie di quelle famiglie, che il \'illani nomina nel capo seguente, come i Bagnesi, i Pulci, i Cipriani, i Cavalcanti, i Nerli per non citare se non i nomi da lui stesso ricordati a capo delle parti

guelfe o ghibelline. Eppure di quelle guerre il cronista tace affatto, e solo in un altro luogo, al capo trentesimo del quarto libro ne tramanda un lontano e imperfetto ricordo raccontando, che due anni dopo la morte della buona contessa Matilde, il 1 1 17, " si prese il fuoco a Firenze e non sanza cagione e giudici

 

 

II —

 

 

di Dio, imperciocché la città era malamente corrotta di resia, intra 1' altre della setta degli epicurei per vizio di lussuria e di gola, e era si grande parte, che intra' cittadini si combatteva per la fede con armata mano in più parti di Firenze, e durò questa maledizione in Fi-

renze molto tempo insino alla venuta delle sante religioni di Santo Francesco e di Santo Domenico, le quali religioni per gli loro santi frati, commesso loro l'officio dell' eretica pravità per lo papa, molto la stirparo in Firenze e in Milano e in più altre città di Toscana e di Lombardia al tempo del beato Pietro Martire, che da' paterini in Milano fu martirizzato, e poi per gli altri inquisitori " . Si vede che il Villani trasporta in tempi antichi avvenimenti più recenti, e al pari di

Dante, e forse non senza influsso di lui, confonde gli epicurei, o bontemponi e increduli pratici, con gli eretici veri e propri. Certo é che al cominciare del secolo XII può scoprirsi qualche strascico delle lotte combattute il secolo avanti contro l' alto clero simoniaco e dissoluto, ma di catari o patarini ve ne saranno stati tanto pochi, che 1' acuto sguardo del Davidsohn non è riescito a rintracciarne se non un insignificante e dubbio vestigio (Geschichte voti Fioretti I, 722).

Le confusioni del Villani furono ripetute da qualche storico moderno, come dal Perrens, che ricostruice la storia dell' eresia fiorentina dal 1 1 1 7 al 1 309 sulle orme del Lami; ma certo avrebbe fatto molto meglio a risalire alle fonti originali, le quali gli avrebbero fornita una cronologia più esatta, e risparmiate alcune conghietture infondate come questa, che fra Pietro da Ve-

 

 

— Ili

 

 

rona sia stato mandato a Firenze dopo lo scacco, che avrebbe subito l' inquisitore fra Rogero Calcagni. Dai documenti, che il lettore troverà qui appresso, ben si rileva avere avuto fra Pietro un posto affatto secondario in Firenze, né qui appare come sostituto o coadiutore di Rogero, ma interviene solo da testimonio alla pubblica lettura della sentenza. Come pure dai documenti si rileva che Martino IV, nonché infervorare gli inquisitori contro gli eretici rèsola d* en confisquer les biens, scrive invece suU' istanza del comune fiorentino per porre freno ai rigori inquisitoriali e alle feroci procedure contro i morti.

Ma torniamo al Villani, che non per pietà filiale parla vagamente dell' eresia, disdoro della sua città ; ma perché ne ha scarsa e confusa cognizione. Altri cronisti non sembrano più informati di lui, e solo il Velluti fa espressa menzione delle lotte in Firenze tra patareni e cattolici, alle quali il suo antenato Bonaccorso di Piero, ardito e forte e aitante uomo e molto sicuro nell' arme prese parte. Se dunque le cronache del tempo sono così avare di notizie intorno ai Patarini, non è meraviglia che anche Dante ne taccia. Il guaio é che il divino poeta non solo dei Patarini non fa menzione alcuna, ma nessun' altra eresia medievale ricorda, all' infuori di quella di fra Dolcino. Ed é notevole anche

qui r accordo col Villani, che ha pure sul fraticello di nessun ordine un breve capitoletto. Le ragioni di questo strano silenzio ho cercato d' indagare nella lettura, che tenni a Milano l' aprile scorso per gentile invito del comitato dantesco di quella città, ed ora pubblico con

 

 

lY —

 

 

molti documenti tratti dall' Archivio di Stato fiorentino.

Il mio lavoro ha potuto essere più completo e meno imperfetto grazie alla cortesia del Dottor Ristori, Priore di Santi Apostoli di Firenze, che mi mise a parte delle sue scoperte, e alla squisita gentilezza di tutti gì' impiegati dell' Archivio, che mi aiutarono efficacemente dei loro consigli e della loro opera. A tutti rendo pubbliche grazie, nonché al Dottor Davidsohn, che la

storia fiorentina ha studiata nei più riposti penetrali.

 

 

Francesco D' Ovidio in uno dei suoi più felici articoli della Nuova Antologia, discorrendo sulle fonti Dantesche, si chiedeva perché il divino poeta non facesse menzione alcuna di Gregorio VII, di quel gran Papa, che chiuse la sua vita travagliata Con l' angoscioso grido, degno dell'Ecclesiaste: amai la giustizia ebbi in odio l' iniquità, e però muoio in esilio. La risposta, che dette l'acuto uomo, in altre parole è questa: Dir male del gran pontefice Dante non poteva senza manifesta ingiustizia: dirne bene non voleva senza scapito delle idee e dei sentimenti a lui piu' cari; ond' è che ne tacque sempre e forse solo una volta vi alluse copertamente. Di simili reticenze potrebbero darsi innume-

revoli esempi, e se nella Divina Commedia, a cui ha posto mano

e cielo e terra, è sterminata la copia delle cose che vi scoprite,

non è poco quel che non e' è, o che a torto o a ragione argo-

mentavasi di trovarvi. E poiché tanti hanno parlato di quel che

e' è, mi sia lecito spender qualche parola su quel che non e' è, non per ispacciar cose nuove, ma per presentare il già noto sotto un nuovo aspetto. Ma questo tema è troppo ampio e mal si potrebbe costringere nelle augustie di un fascicoletto, né se anche volessi, a me basterebbero le forze. Un compito più modesto mi assumo ed è questo : di studiare il rapporto di Dante con l' eresia contemporanea a lui, e cercare il perché egli ostinatamente ne taccia.

E cominciamo subito dai Catari, o come si diceva allora, confondendo due sette ben diverse, i Patarini, che ammettevano un

Tocco. I

 

 

2 —

duplice creatore, quello del bene e quello del male, e per liberarsi dal contatto col mondo creato dal Dio malvagio, predicavano le più rigorose astinenze. Poco più di venti anni prima che il Poeta nascesse, il numero dei Patarini era cresciuto in Firenze a tal segno, che un terzo circa delle più cospicue famiglie della città ne era infetto. Epperò l' inquisitore fra Ruggero Calcagni, che aveva a lato quell' altro martello degli eretici, che fu S. Pietro Martire, credette bene di battere un gran colpo, e nel 1244 apri un gran processo, del quale si conservano più di venti pergamene nell' Archivio Fiorentino, alcune già pubblicate dal Lami, altre non meno importanti ancora inedite. Tra queste ultime offre un particolare interesse per noi la pergamena del 26 Aprile 1245 ('), nella quale Lamandina moglie di Rinaldo Pulci, depose con giuramento innanzi all' inquisitore fra Ruggero di aver conosciuto da ben dodici anni gli eretici in casa della cognata. Margherita Pulci, la quale aveva ricevuto il consolamentum dalle mani forse del vescovo Torsello. In quella casa si radunavano gli eretici, e oltre al Torsello suddetto e al Latino

e ad altri parecchi ella vi vide Giacomo da Acquapendente e

Gherardo poscia bruciati a Poggibonsi. Alle loro prediche pro-

testa Lamandina di non aver mai prestata fede, ma tuttavia con-

fessa di essersi talvolta prostrata innanzi a Torsello e agli altri

consolati. La famiglia Pulci, dalla quale discese il cantore del

Morgante, era una delle più cospicue e tra quelle che Dante nel

Paradiso ricorda come portanti la bella insegna

Del gran barone, il cui nome e il cui pregio

La festa di Tommaso riconforta (^).

Un' altra delle suddette famiglie è quella dei Nerli, di cui do-

vremo far parola tra poco. Per ora diremo che anch' essa era

infetta di eresia; poiché la Lamandina cita le tre sorelle Diana,

 

 

(') Vedi documento n. 13 da confrontare con le deposizioni precedenti

( Doc. 1-12).

(") Paradiso XVI, 127.

 

 

— 3 —

Avvenente e Sofia, figlie di Messer Nedo, che venivano in casa

Pulci a visitarvi quella Margherita loro sorella, che noi già cono-

sciamo. La qual deposizione è confermata da un' altra gentildonna,

Adelina moglie di Albizo Trebaldi, di quel signore che in un atto

del 12 Novembre 1240 appare tra i creditori della contessa Bea-

trice vedova del conte Marcovaldo ('). Altri nobili sono impli-

cati nel processo, tra cui citerò in primo luogo Uguccione Ca-

valcanti, che in una deposizione conservataci nella pergamena

del 12 Ottobre 1245, dichiara di aver udito le prediche degli ere-

tici in casa di Pace del Barone, e di aver saputo che nella stessa

casa il vescovo patarino Giacomo da Acquapendente insieme

con Brunetto dettero il consolamentum a Gante Linguaci ('). Ghe

rapporto abbia codesto Uguccione col Cavalcante di Cavalcante

messo dall' Alighieri tra gli eretici, io non saprei dire, né se

egli sia quello stesso, che nel patto commerciale stretto tra Pe-

rugini e Fiorentini il 21 Marzo 12 18 interviene come console di

Por Santa Maria ('). Sia lo stesso o un altro, certo è notevole

che nel 1245 tra i credenti negli eretici ci sia un Cavalcanti e

insieme con lui un Linguaci, un Cipriani, una Bonfiglioli, e a

capo di tutti i due fratelli Pace e Barone di Barone, una po-

tente famiglia, nella cui casa turrita di S. Gaggio ripararono gli

eretici Giovanni e Ristoro poi che a viva forza furon liberati

dalle carceri del Comune. E più notevole è che codesti eretici,

quando a S. Gaggio non si sentirono più sicuri, li ospitasse nel

suo palazzo di Cascia Guido di Cacciaconte, il quale richiesto dal

podestà di Cascia, Filippo di Cuona, di consegnarli a lui, li tra-

fugò a Pontefonio in casa Vernaci e di li nelle terre dei Pazzi (%

 

 

(') Vedi documento n. ii, e Santini Documenti dell'antica costitusione del

Comune di Firenze. Firenze 1895, nei Documenti di Storia italiana pubblicati a

cura della R. Deputazione sugli studi di Storia patria per le Provincie di Toscana

e dell' Umbria. Tom. X, p. 277.

(') Vedi documento n. 8 da cfr. con doc. n. 12 e col dee. n. 14 dove si ac-

cenna anche al figlio di Uguccione Cavalcanti a nome Federigo.

(') Vedi Santini op. cit. p. 191.

(*) Vedi documento n. io.

 

 

— 4 —

Quali e quanti aiuti trovarono gli eretici nelle case dei Grandi

né meno dei Guelfi che dei Ghibellini! Ma l'inquisitore non si

perdette d'animo. Una consolata Buona, moglie di un Ricevuto di

Poppi, che non volle rinunciare alla sua fede, consegnò al braccio

secolare, o in altre parole fece bruciare il 31 Gennaio 1244 (').

I fratelli Baroni citò in giudizio, ed avendo questi animosa-

mente confessato di aver dato ricovero all' eretico Giovanni, ed

essere a loro notizia che la loro madre Biliotta, fosse già da

due anni consolata ('), pronunciò contro di loro una sentenza addi

II Agosto 1245, che ordina sia rasa al suolo la turrita casa, poi-

ché il luogo dove si raccoglievano gli eretici è giusto che serva

ora da pubblico immondezzaio; sian versate nelle mani del ve-

scovo e dell' inquisitore mille libbre, e tutti i loro beni e mobili ed

immobili sian confiscati, salve le altre pene che l' inquisitore giu-

dicherà del caso, quando i colpevoli non obbediscano (^). Contro

la grave sentenza i Baroni protestarono, e il podestà stesso di

Firenze Ser Pace Pesamiola da Bergamo intervenne in loro fa-

vore, e sotto pena del bando ingiunse agi' inquisitori di troncare

il giudizio {*). Ma ciò non valse se non ad irritare gli animi;

poiché r inquisitore non pure ribadi la sentenza contro i Baroni,

ma lo stesso podestà citò al suo tribunale come fautore degli

eretici (^). Nella ribadita condanna già si sente il fragor delle

armi e si accenna ai gravi tumulti accaduti in Chiesa e fuor di

Chiesa; poiché non soltanto i Baroni e lor compagni si ar-

marono, ma benanco i seguaci dell' inquisitore, che s' ordina-

rono in una compagnia detta dei Capitani di Santa Maria. Ed

alla loro testa si pose il compagno dell' inquisitore, il futuro

S. Pietro Martire, giovane animoso ed aitante della persona.

 

 

(1) Vedi documento n. 4.

(') V. documenti n. 8, 12.

P) V. documento n. 15.

(*) V. documento n. 16 da cfr. coi doc. n. 5 e 6, dove il Console dei Notari

e lo stesso potestà ingiungono al notaio Ottaviano di Mainetto di pubblicare

r appello che i fratelli Pace intendevano d' interporre anche prima della sentenza

degli II Agosto.

(S) V. documenti n. 17 e 18.

 

 

— 5 —

che reggeva lo stendardo dei fedeli, fondo bianco con croce

rossa. Le due schiere si azzuffarono in due luoghi della città,

nelle piazze del Trebbio e di S. Felicita. Gli eretici furono

rotti e messi in fuga fin oltre le mura della città, e sul luogo

del trionfo si rizzarono dei ricordi che durano tuttora, e che

certo ai tempi di Dante rappresentavano, più di quel che facciano

oggi, ricordi ancor freschi e vivi. Perché, sebbene nella fanciul-

lezza dell' AUighieri quei fatti erano lontani di quasi trent' anni,

pure r eco dei processi durava tuttora, ed è pervenuta sino a noi

una sentenza del Podestà AUighieri di Sennanza, che nell' unde-

cima indizione del 1283 su richiesta dell* inquisitore fra Salomone

di Luca, minorità, ordina di vendere i beni di Madonna Rovinosa,

moglie del fu Rainero de Baneo o Bagnesi di Firenze morta nel-

l'eresia e condannata solennemente! (*).

Un* altra sentenza fu pronunziata contro un morto da fra Sa-

lomone, non saprei dire quando, certo non oltre il 1287: perché

già in quest' anno in un atto di vendita dei beni confiscati alla

Bagnesi appare un altro inquisitore, fra Bartolomeo da Siena.

La sentenza era contro uno della famiglia Nerli, famiglia che

noi già conoscemmo dal processo del 1245, e che Dante ricorda

nel Paradiso come una delle più antiche e più degne di Fi-

renze ('). Avea nome Gherardo e di lui dice il Lami che fu dot-

tore e cavaliere e console della Repubblica nel 1218 f ). Che fosse

cavaliere è certo, poiché in tutti i documenti che di lui parlano

è chiamato dominus; che fosse console di giustizia nella curia

di Santa Cecilia è probabile, se a lui si riferisce la carta pub-

blicata dal Santini del i Gennaio 1219, o 1218 secondo lo stile

fiorentino {*). Ma che fosse anche dottore non appare dai docu-

menti da me veduti. Certo è che una carta della provenienza

Cestello del 1261 lo dà per morto in quel tempo {•'), ed è quindi

 

 

(*) È pubblicato dal Lami nelle Antichità p. 588.

(") Paradiso XV, 115.

(') Lau, Lezioni di antichità toscane, p. 497.

(*) Santini, opera citata p. 240.

(*) Lami, op. cit. p. 535.

 

 

— 6 —

ben strana la sentenza che contro il defunto pronunziò 1* inqui-

sitore a cinque lustri di distanza. Né sappiamo su quali argo-

menti si fondasse, né qual pena facesse pesare sugli eredi; per-

ché la sentenza di fra Salomone non mi fu dato di rinvenirla.

Ma per compenso trovai sulle indicazioni del Lami un' altra

sentenza, che dopo altri 28 anni pronunciò l' inquisitore fra Gri-

maldo da Prato il 23 Agosto 1313, quando già Dante da pa-

recchi anni era in esilio. L' inquisitore, richiamate le leggi ca-

noniche ed imperiali che fan ricadere la pena dell' eresia sui

discendenti sino alla seconda generazione, condanna tutti i figli

e nipoti di Gherardo a dimettersi da qualunque ufficio o dignità

pubblica, a rilasciare qualsiasi benefizio sotto la pena della sco-

munica per i chierici e di una multa di cinquecento fiorini di

oro per i laici {'). Anteriori sentenze potrei citare per fortuna tutte

assolutorie, ma che tuttavia attestano come l'eresia non fosse del

tutto spenta. La prima di esse fu pronunziata il 18 marzo 1276

in prò di un tal Bettino del fu Amore Bezolmi ('). La seconda

assolse il 12 agosto 1282 dopo ritrattazione la signora Giovanna

moglie di un Marito di Cerreto (^), La terza che è intorno

al 1287 riammette nella comunione dei fedeli un Lapo di Gian

Pierino {*). L' ultima infine proscioglie il 9 settembre 1297 un

Gobbo Bonaccorsi, di Prato, che armata mano avea cercato di

sottrarre all' inquisizione il fratello Cavalcante (^).

Questi fatti, che non mi pento d' avere minutamente raccon-

tati, fan nascere spontanea la domanda, come mai il Poeta abbia

taciuto di un' eresia, che, sebbene ferita a morte nel 1245, la-

sciava lunghi e dolorosi strascichi nel 1283, nel 1287, nel 1297,

nel 1309 e perfino nel 1313. Molte delle famiglie nominate in

quei processi erano ben note a Dante, e ricordo che a capo dei

quattrocenti fuorusciti che insieme con Dante furono esclusi dal

 

 

(') V. documento n. 25.

(') V. documento n. 19.

(3) V. documento n. ao.

(*) V. documento n. aa.

C") V. documento n. 33.

 

 

perdono del 1313 sono appunto i Nerli ('). Perché dunque il

nome slesso dei Patareni non s' incontra mai nella Divina Com-

media? La risposta data comunemente, che s'appoggia all'au-

torità di un commentatore, quale è Pietro, il figlio stesso di

Dante, è che il divino Poeta sotto il nome di Epicurei intenda

anche i Catari ('). Che popolarmente a codesti eretici si desse

dell'epicureo si può beiie intendere; poiché l'eretico è un miscre-

dente, e spesso il miscredente si toglie nel senso di chi ami sot-

trarsi dai freni religiosi per dare libero corso al suo talento.

Ma non si può senza far torto a Dante ammettere che egli

confonda cogli Epicurei i Catari, i quali credono il corpo fat-

tura del Diavolo, né v' ha rimedio che non mettano in opera

per salvare l' anima dalla cruda legge della metempsicosi. Met-

tere tra gli Epicurei quelli che condannano perfino le legittime

nozze è misconoscere e gli uni e gli altri. Un' altra risposta

potrebbe dare chi dall' aver messo Dante, Federico, Farinata e

il cardinale Ubaldini tra gli eretici argomentasse che sotto questo

nome egli comprenda i Ghibellini. La qual risposta potrebbe ad-

durre a sua prova non solo il fatto già ricordato d' un Cavalcanti

coinvolto nel processo del 1245, ma 1* altro ancor più impor-

tante, che nel 1283 l' inquisitore fra Salomone condannò Farinata

degli liberti e la moglie Maria Addetta come eretici consolati, e

con essi anche i figli Lapo, Federigo e Maghinardo e i nipoti

Lapo e Betta del fu Azzolino, i quali tutti si appellarono, come un

tempo i fratelli Baroni, al serenissimo Rodolfo re dei Romani (^).

 

 

(') Del Lungo, Dell'esilio di Dante. Firenze 1881, p. 123.

(^) Petri Allegherii Comntentarium Florentiae 1845 p. 130. Et vere hae-

retici et Patarini dici debent malitiosi. Vedi anche L'ottimo commento p. 172 " e

caddonvi molti del presente tempo connumerati sotto il generale vocabolo detto

Paterini „.

(') La notizia di questa sentenza è conservata nel manoscritto strozziano

dell' Archivio di Stato fiorentino, serie 2' n. 54 p. 195. Lo Strozzi lo ricavò dagli

spogli degli atti del notajo ser Benvenuto Alberti della Castellina, atti che né al

Santini né al Ristori, a cui debbo questa comunicazione, è riescilo di ritrovare

neir Archivio. La sentenza recava anche il nome del potestà : Dominus Aldi'

glìierus detto Gavazza.

 

 

— 8 —

La sentenza a noi non è pervenuta, e non possiamo sa-

pere se anche in questo come in altri casi simiglianti si trat-

tasse d' un postumo processo, pili politico che religioso, inteso

principalmente a impadronirsi dell' eredità del fiero Ghibellino.

Certo è che fu pronunziata contro un morto, perché il Del Lungo

ricavò dall' obituario di S.^ Reparata che Farinata fu ivi tumulato

il 27 aprile 1264 {'). Comunque sia, io non voglio negare che

tra i Ghibellini ci potessero essere degli eretici o credenti o

consolati. E bastava in quei tempi di guerre intestine un caso o

due perché su tutto il partito si ripercuotesse la condanna di

pochi. Ma che proprio Dante, l'autore del De Monarchia, credesse

siffattamente nelle accuse popolari, da confondere insieme i Ghibel

lini coi Patarini è una tale assurdità che si condanna da se stessa

Di nuovo adunque qual' è la ragione della reticenza Dan

tesca? Una spiegazione potrebbe essere questa: è la stessa ra

gione per cui il Villani non accenna neanche ai fatti del 1245,

che pure ebbero maggiore importanza delle favole da lui narrate

per queir anno. Al tempo di Dante come più ancora al tempo

del Villani 1' eresia catara, almeno in Toscana, era spenta da un

pezzo. E i processi tardivi, dei quali abbiamo fatto parola, si

devono più all' avidità dei beni altrui, che alla tema non do-

vessero i figli persistere negli errori dei padri. E la prova ne

sia, che benché fra Salomone condannasse il morto Gherardo

Nerli, i suoi figli e nipoti non furono disturbati, e molte carte di

S. Apollonia attestano che essi avevano libera disposizione dei

loro beni 0, e Nerlo dei Nerli fu più volte ambasciatore della

 

 

(') Del Lungo, Dino Compagni, I, 11 13.

(') In un atto del 17 Dicembre 1291, Archivio di Stato fiorentino Prov.

S. Apollonia si legge: Quod dominus Cavaìcanle et dominus Nerlus fratres filli

quondam domini Gherardi Nerli et Goccia quondam domini Ugolini Gherardi

Nerli, qui dicuntur esse patroni (della Chiesa di S. Maria di Mantignano) una

cum filiis ipsorum doniinorum Cavatcantis et Nerli et Goccie et filli Gherardi et

Blndl domini Ugolini Gherardi Nerli Ipslus ecclesie et loci, prò lercia parte obllga-

veruni se In solldum etc. Altri atti di locazione o compromessi si hanno nel 1298,

1301, 1303, 1316 ecc.

 

 

- 9 -

Repubblica ('), ed anche nel 1313 un Gherardo Nerli nipote era

priore della chiesa di S. Quirico di Capallo. Né senza fon-

damento è il sospetto che il tardivo processo non fosse fatto

contro di lui ed altri della sua casa se non per togliere al priore

il suo beneficio ('). Certo l' inquisizione procedeva senza scru-

poli, I beni degli eretici, come quelli di Gherardo Lupicini coin-

volto forse nel processcT del 1245, furono confiscati, e nel 1309

r Inquisitore vendè la parte che per legge gli era spettata (^). Nes-

suno poteva esser più sicuro del fatto suo, e il Papa medesimo.

Martino IV, su richiesta del Comune, ebbe a moderare lo zelo

degl' inquisitori, vietando si procedesse contro i figli o nipoti,

quando lessero schiettamente cattolici. Ma questo stesso docu-

mento, che porta la data del 3 aprile 1383 {*), è una prova che

a quel tempo il moto ereticale aveva perduto ogni importanza, ed

i processi non erano se non enormi abusi. Se dunque l' eresia

catara era scomparsa, se anche lo statuto senese del 1310; pur

condannando gli eretici non nomina i patareni, perché dobbiamo

meravigliarci che Dante non ne faccia alcun conto? {% Certo gli

 

 

(') Negli Spogli genealogici del Dei nell' Archivio di Stato di Firenze ho

trovato: 1291 Nerlus de Nerlis missus ad Lucenses ; altra volta fu mandato a

metter pace tra i Fiorentini e il Comune di Bologna ( Spogli famiglia Nerli ).

(') Pare che la sentenza del 1213 non avesse effetto; perché nel 1215 l'in-

quisitore dovè ritornare alla carica, e lo stesso Lami, Ecclesiae Floreiitinae Mo-

numenta, II. 775, cita due carte di quell' anno : Qualiter quaedam sententia decla-

ra/ionis privaiionis lata et pronuntiata fuit per fratretn Grimaldunt inquisitorem

heretice pravilatis cantra Dominum Gherardinum de Nerlis priorem Ecclesie de

Capallo. Carta Manu Johannis Bongie Not. sub MCCCXV Ind. XIII die IX

Julii. Qualiter instrumenta locationts affictus per dictum dominum Gherardum de

bonis dictae Ecclesie cassa fuerunt per qnandam sententiam latam per dictum fra-

trem Grimaldum inquisitorem. Carta manu Johannis Guidonis Notarli sub mille-

simo, indictione et die predicta.

f) Doc. n. 24

(*) Doc. n. 21.

(') Il Pecci nelle sue memorie manoscritte ( cod. n. 443 manoscritti Archivio

di Stato Fiorentino, tom. i carte 16 b. ) riporta gli Statuti senesi del 1310 vol-

garizzati ufficialmente dal notajo Ranieri Gheza Gongalandi, dove è scritto:

Statuirno che la Podestà, Capitano, Consoli ovvero Rettore ovvero quali si

vuol" altri somellianti infra otto di prossimi di po' l' entrata del suo Regimento

 

 

— IO —

avrebbe fornito qualche tratto mordace l' incontrare, poniamo, un

consolato nel regno della desolazione. Ma non gli sarà soccorso

nessun nome, che meritasse il conto di ricordare. Molti dei catari

erano uomini di grande pietà, che per la loro fede incontrarono

sereni la morte; ma nessuno ha lasciato traccia di sé, e Dante

se pure talvolta avrà pensato agli eretici avrà potuto dire tra sé:

Non ti curar di lor ma guarda e passa.

Ma se questa spiegazione è più o meno accettabile per i Ca-

tari, non regge in modo alcuno per un' altra setta ereticale, per

i Valdesi. Pietro Valdo è una personalità spiccata, che prima di

S. Francesco ben vide come la Riforma della Chiesa dovesse

cominciare dal rimettere in onore la Povertà, e poveri di Lione

si chiamò la società da lui fondata. Dante ha un gran concetto

della povertà, ma neanche con una parola ricorda chi se ne fece

novello banditore sulla fine del secolo decimosecondo. Né si

può dire che l' eresia valdese fosse scomparsa ai tempi di

Dante. A Firenze senza dubbio ha poco attecchito, e nel pro-

cesso del 1245 non v' ha altra traccia del suo passaggio se non

nella deposizione dell'Adelina moglie di Albizzo Tribaldi, che

vide in sua gioventù e nella casa di suo padre alcuni poveri

de Loduno, senza accoglierne la fede; poiché in seguito nella

 

 

sieno tenuti ordinare XIJ buoni huomini, cattolici et due notari et due servitori,

o vero quanti saranno bisogno e quali al vescovo de la Terra, se presente sarà

et essere vi vorrà, et due frati de li ordini de Predicatori et due de' Minori a ciò

deputati de li suoi priori et Guardiani, se conventi de li ordini ine saranno, overo

r Inquisitori overo Inquisitore de la heretica pravità vorranno eleggere. Et questi

cotali eletti et ordinati possino et debiano pilliare heretici et heretiche et li loro

beni alloro toUere et fare toUere per altrui et procurare che queste cose sieno

adempite pienamente, si ne la città come in altro luogo et in tutta la sua giuri-

sditione et distretto et essi menare et fare menare ne la podestà del vescovo de

la terra overo del suo vicario, overo de li Inquisitori overo de l' Inquisitore „.

È notevole che negli' Statuti latini anteriori a questo del 1310 si nominano i

patareni. Et quicunique fuerit hereticus vel pactarenus et non rediret ad tiiandatinn

seu voluntatem domini Episcopi seu Capituli intra VIIJ dies.... ipsuni vel ipsos de

civitate et tota iurisdictione et distirictu sentnsi expellam.

 

 

— II —

casa maritale presso Empoli non ospitò se non patarini ('). Ma

se a Firenze e in Toscana non attecchirono i poveri di Lione,

in Piemonte e in Lombardia s' impiantarono solidamente. E certo

Dante nelle sue peregrinazioni avrà dovuto sentir parlare dei

poveri Lombardi, una chiesa fondata dal Valdo medesimo, dove

sembra sieno entrati parecchi Umiliati, e i resti del movimento

Arnaldista. Questa setta era molto attiva, più attiva di quei se-

guaci di Pietro, che ricoveratisi nelle alpestri valli del Piemonte,

presero il nome, che tuttora conservano, di Valdesi. Sono per-

venuti sino a noi due documenti, una lettera da Bergamo del

1218, nella quale i Poveri Lombardi cercano d' intendersi coi

fratelli d' oltremonti, a patto però che l' indipendenza della co-

munità sia rispettata, ed un' altra di centocinquanta anni dopo,

cioè del 1368, nella quale la comunità Lombarda scrive ai fratelli

di Germania coli' evidente scopo di ravvicinare la loro Chiesa

alla cattolica ('). Questi due documenti, se pure non ci fossero

altre prove, basterebbero ad attestare la vitalità dei Poveri Lom-

bardi, dai quali pili che dai Valdesi delle valli derivò l' eresia

tedesca, che ebbe poi tanto seguito nei Taboriti e negli Ussiti.

Dante nel suo esilio vide parecchi centri di quest* agitazione

ereticale, come Padova e Verona (^). E se anche quando egli vi

capitò, nessun risveglio dell* attività dei Poveri Lombardi ebbe

luogo, certo è che al tempo suo, come nell' età precedente, ogni

volta che la lotta tra l' Impero e la Chiesa si faceva più acuta,

dall' opposizione Ghibellina 1' eresia sapeva abilmente trarre par-

tito. Come mai il nome di Valdo, del pari che quello dei Leonisti

e dei Poveri Lombardi, indarno si cerca nella Divina Commedia?

Anche qui qualche risposta si potrebbe dare, e la ragione che

più sopra adducemmo contro il silenzio Dantesco, potrebbe ri-

 

 

(*^ V. documento n. ii

(*) CoMBA, Storia dei Valdesi. Firenze 1893, p. 42, 53.

(') V. Cipolla, Nuove notizie sugli eretici veronesi i2-jj-ijio, nei Rendiconti

dell'Accademia dei Lincei. Classe di scienze morali, serie V, voi. V, fac. 8-9.

Roma 1896.

 

 

— 12 —

torcersi invece a tutto suo favore. Poiché sta bene che Dante

ami ed esalti la povertà, ma una povertà che si predichi ed in-

culchi d' accordo con la dottrina cattolica non contro di essa.

S. Francesco ben comprese che il vero successo degli eretici

stava nel loro proposito di far ritornare la Chiesa alla povertà

e semplicità dei tempi apostolici. E questo proposito fece suo,

servendosene non come d' un' arme d' opposizione contro la

Chiesa stessa, ma d'un mezzo per meglio sorreggerla contro

gli sforzi ereticali. S. Francesco voleva si la Riforma della Chiesa,

ma d' accordo con la Chiesa stessa. Questo, come vedremo, è

pure il concetto di Dante. Epperò quanta importanza ha agli

occhi suoi il movimento Francescano, che non s' allontana dal-

l' ortodossia, tanta ne doveva perdere il Valdese, che coli' andare

degli anni accentuava sempreppiù il suo distacco da Roma, e

tra i Poveri Lombardi con maggior celerità e risolutezza che

fra i Poveri di Lione o delle Valli.

Non so se questa ragione tenga molto; certo se pure è valsa a

trarci d' impaccio per il caso dei Valdesi, di ben altre reticenze non

vale a renderci conto. Ammetto bene che Dante non abbia neanche

alla sfuggita ricordati gli Arnaldisti; perché forse al tèmpo suo di

questi eretici non restava se non il nome nell'editto imperiale,

ma in realtà erano scomparsi da un pezzo ed assorbiti in altre

eresie. Ma come spiegare che Dante abbia taciuto di Arnaldo

da Brescia, il quale non s' allontana dall' ortodossia se non in

un punto impercettibile, che anche all' occhio pili acuto sarebbe

sfuggito? Arnaldo, come ebbi agio di esporre altrove, si con-

nette col moto patarinico favorito se non suscitato dalla Chiesa

di Roma. Ognuno sa che cosa voglia dire Pataria, un nome che

si conserva ancor oggi, che significava luogo dove trafficavasi

sferre vecchie. Nelle agitazioni, che travagliarono Milano nel se-

colo XI, quando contro l' arcivescovo e l' alto clero si sollevò

il clero minore, gli oppositori forse per dileggio furono chia-

mati i patarini, come se dicessimo i cenciaiuoli o peggio ancora.

In quel tempo i patarini, benché combattessero 1' alta gerarchia,

accusandola di traffico simoniaco e di concubinato, erano tut-

 

 

— 13 —

t' altro che eretici; poiché le idee che essi sostenevano: non

avere cioè alcun valore i sacramenti somministrati da preti in-

degni, erano come un tacito presupposto del canone di Niccolò II.

" Non si ascolti la messa di un sacerdote, che sappiasi vìvere

in concubinato „ ('). In seguito al tempo di Dante patarino di-

venne, come già si disse, sinonimo, forse per affinità di suono,

con cataro o catarinof ma nel secolo XI a capo del movi-

mento patarinico furono due santi, Arialdo ed Erlembardo,

che quali martiri della buona causa furono levati sugli altari.

A questi esempi paesani s' ispirò Arnaldo da Brescia, il quale

tonò contro la dissolutezza e la simonia del clero, come un se-

colo avanti avevano fatto i legati di Roma. Ma ora le condi-

zioni erano mutate, ora si dava del calunniatore all' oscuro chie-

rico, che ardiva di accusare il suo vescovo, e l' odio contro il

ribelle lo perseguì perfino in Francia, dove si era riparato met-

tendosi ai fianchi del suo maestro Abelardo. E quando tornato

in Italia si mescolò nelle contese tra il Papa e il Comune Ro-

mano, i dritti del. laicato sostenendo intrepidamente, fu dichia-

rato nemico della Chiesa, né il Papa temè di rivolgersi all' Im-

peratore pur di avere nelle mani 1' abborrito ribelle. Ed avutolo

lo condannò a morte come eretico impenitente, e fattone bru-

ciare il cadavere, ne disperse al vento le ceneri. Del movimento

patarinico, che alla distanza di un secolo ebbe una ripresa cosi

tragica. Dante non fa motto alcuno; ma si può credere che al-

meno vi accenni copertamente quando mette in bocca di S. Pier

Damiani le terribili invettive, che i Patarini solevano scagliare

cóntro i pingui prelati:

Poca vita mortai m' era rimasa,

Quando fui chiesto e tratto a quel cappello,

Che pur di male in peggio si travasa.

Venne Cephas e venne il gran vasello

Dello Spirito Santo, magri e scalzi,

Prendendo il cibo di qualunque ostello.

 

 

(') Vedi A. Hausrath, Weltvtrbesserer im Mittelalter. II, Arnold von Bre-

scia Leipzig 1895 ( 1891 ) p. 161 nota 50.

 

 

— 14 —

Or voglion quinci e quindi chi rincalzi

Li moderni pastori, e chi li meni,

Tanto son gravi, e chi diretro gli alzi.

Copron de'manti loro i palafreni.

Si che due bestie van sotto una pelle,

O pazienza che tanto sostieni! (').

Questo linguaggio sta benissimo in bocca di S. Pier Damiani,

che fu il braccio destro dei Papi nel movimento patarinico, e

mandato in Milano come legato di Niccolò II condannò l'ar-

civescovo ad una grave multa, e lo costrinse a giurargli che

avrebbe obbedito ai decreti di Roma, e conferiti senza com-

penso alcuno gli ordini ai sacerdoti, e ingiunto al clero suo il

più rigoroso celibato. Ma se del moto patarinico nel passo sur-

riferito, s' ode come un' eco lontana e si fioca che nessuno

dei commentatori 1' ha, per quel che io sappia, raccolta, di Ar-

naldo da Brescia invece, per frugare che abbia fatto, non m' è

riuscito di scoprire la più piccola traccia nel divino poema. Il

che senza dubbio desta non poca meraviglia; poiché nessuno

più d' Arnaldo dimostra una tempra più affine a quella del fiero

poeta. Anime sdegnose entrambe, non temono di levare la voce

contro le prepotenze e le malvagità dei contemporanei, e benché

fervidi cattolici non dubitano di scagliare le più roventi invettive

contro la corruttela del clero. E le loro parole talvolta si cor-

rispondono come le note di una sinfonia. Se Arnaldo nella ri-

presa delle ostilità tra Eugenio III e il comune di Roma non

teme di accagionare il Pontefice delle stragi e delle rapine, che

la guerra civile portava, non meno roventi sono le parole che

Dante mette in bocca a S. Pietro contro Bonifacio Vili:

Quegli che usurpa in terra il loco mio,

Il loco mio, il loco mio che vaca

Nella presenza del Figliuol di Dio,

Fatto ha del cimiterio mio cloaca

Del sangue e della puzza (^).

 

 

(") Farad. XXI, 124.

i") Farad. XXVII, 23.

 

 

— 15 —

Se Arnaldo chiama la Chiesa di Dio spelonca di ladroni, mer-

cato di affari, dove i Cardinali trafficano come Scribi e Farisei,

anche il divino poeta

Per questo 1' Evangelio e i dottor magni

Son derelitti, e solo ai Decretali

Si studia si, eh? pare a' lor vivagni.

A questo intende il Papa e i cardinali (').

Se dunque è tanta la corrispondenza fra di loro, come Dante

non incontra mai nel suo viaggio l' ardito Bresciano, in bocca

al quale meglio che a Folchetto sarebbe suonato il fallace va-

ticinio :

Ma Vaticano e i' altre parti elette

Di Roma, che son state cimitero

Alia milizia che Pietro seguette,

Tosto libere fien dell' adultero ? (').

La reticenza o io m'inganno, è men difficile a spiegare di quel

che paia. Poiché dobbiamo ricordare che Arnaldo non lasciò

alcuno scritto, e tutto quello che sappiamo di lui lo dobbiamo

ad alcune cronache, e ad un poema che nessuno può dire di es-

sere capitati sotto gli occhi di Dante. Né s' ha da credere che Ar-

naldo abbia avuto nel secolo decimoterzo la rinomanza come ai

nostri giorni, e chi cercasse quanti fra storici e letterati abbiano

fatto cenno di lui nel Medio Evo e nella Rinascita, ben poco

raccoglierebbe. Notate poi, come 1' ultima guida, che si presenta

a Dante acciò che assommi il suo cammino, è S. Bernardo che

sottentra a Beatrice ritornata al suo seggio glorioso. Certo il

Chiaravallese, che ardeva d' amore per la Regina del cielo, era il

pili degno a intonare il commosso inno

Vergine madre, figlia del tuo figlio.

Ma non per questo il divino Poeta lo presceglie fra tanti altri

santi, si perché più di S. Bonaventura, piti ancora di Riccardo

(') Parad. IX, 133.

(") Parad. IX, 139.

 

 

— i6 —

ed Ugo da S. Vittore egli rappresenta la teologia mistica, com-

pimento e corona della teologia raziocinativa rappresentata da

Beatrice. Questa preferenza, data a S. Bernardo a petto ad altri

santi ed altri mistici, fa supporre che Dante ne conosca le opere,

e dell' ardore, che vi traspare, faccia gran conto. Dalle quali

opere, specie dall' epistolario, egli avrà potuto bene apprendere

qualche cosa di Arnaldo ma non ricavarne il vero valore. Poiché

S. Bernardo, quantunque riconosca la vita integra ed austera

del Bresciano, pure lo rappresenta come un nemico pericoloso

della Chiesa. E tanto bastava perché il nostro poeta non fa-

cesse alcun conto di chi per le idee politiche, e in parte anche

religiose, gli era di certo più vicino del gran contemplante.

Anche di Abelardo non è cenno nella Divina Commedia, eppure

r amante di Eloisa per la novità e 1' arditezza della sua dottrina,

per r acume delle sue dimostrazioni, era una figura storicamente

al certo pili importante di Sigeri, e ben più di quello che di

questo si sarebbe potuto dire che sillogizzò invidiosi veri (*).

E senza alcun dubbio Abelardo per i casi drammatici della sua

vita avrebbe potuto offrire alla fantasia maggiore esca che il

maestro di Brabante. S' ha dunque da concludere che se Dante

non toccò d'Abelardo, o non l'avrà conosciuto punto, oppure ne

avrà saputo da Bernardo quel tanto che bastava a rimpicciolirlo

ed escluderlo dal novero della gente degna di ricordo.

Ma torniamo al nostro argomento, e seguitiamo delle eresie

taciute da Dante, tra le quali si debbono mettere tutte quelle

che provennero dall' interpretazione od integrazione del pensiero

di Gioacchino. Dante non conosce l' Evangelo Eterno, che ora

è noto non essere altro se non una riproduzione delle tre opere

fondamentali di Gioacchino con 1' aggiunta di un' introduzione e

di glosse, dove si dava più preciso contorno a qualche concetto,

che talvolta per ossequio alla Chiesa Gioacchino aveva lasciato

indeterminato. Come questo libro fosse condannato, come non

 

 

(') Su Sigeri vedi la recensione del libro del Baeumker nel liolleltino della

Società Dantesca italiana nuova serie voi. VI fase. 8.

 

 

— 17 —

solo su Gherardo di S. Donnino, al quale il Salimbene l'attri-

buisce, ma anche su Giovanni da Parma si ripercuotesse questa

condanna, ormai è ben noto. Ma Dante né del libro né della

condanna sa nulla, come non sa nulla di quello strano fatto, che

nel 1260 ebbe luogo quando si credeva imminente la venuta

dell'Anticristo. Voglio dire di quelle processioni di genti, che

vestite di bianco e percòtentisi a sangue le nude spalle, anda-

vano di città in città al grido di Poetiitentiam agite, e imponevan

tregua alle dissenzioni civili in grazia appunto delle imminenti ca-

lamità ('). Che Dante non abbia veduta nessuna di quelle torme

vaganti è indubitato; perché quel moto cessò subito dopo che

il fatto ebbe smentite le tetre profezie, né le processioni di città

in città ricomparvero se non nel 1334, quando l'esule poeta era

già morto da un pezzo. Ma pure quel movimento dei flagellanti,

se non con l' intensità primitiva, almeno in proporzioni minori,

si rinnovò più volte anche al tempo di Dante. Poiché fu in quel

tempo che si istituirono le compagnie dei battuti, le quali nel-

r interno delle città o delle scuole andavano in processione fla-

gellandosi e cantando le laudi in volgare. Che a quei rozzi ten-

tativi di poesia popolare Dante non badasse né punto né poco,

è ben spiegabile dalle sue teorie poetiche, ma che al moto reli-

gioso, che quelle poesie suscitarono, non abbia posto mente può

recar meraviglia, e più ancora che di quelle caratteristiche pro-

cessioni non abbia fatta menzione, le quali, se non altro, gli

avrebbero potuto offrire delle similitudini meglio ancora dei

fanti che uscivan patteggiati di Caprona.

E con questo silenzio si accompagna quello ancor più ca-

ratteristico di fra Jacopone da Todi. Se il frate umbro va-

lesse poeticamente meno di Guittone d' Arezzo io non voglio

discutere. Certo poteva il nostro poeta trattarlo peggio del-

l' Aretino, ma tacerne addirittura come immeritevole anche d' un

biasimo mi sembra duro. Tanto più che fra Jacopone fu vit-

 

 

(') Sui flagellanti vedi l' interessante articolo di H. Haupt, alla voce Geis'

selutig nella Realencyklopàdte fùr protestantische Thtologie uud Kirche, j^' Auflage.

Tocco. a

 

 

— I" —

tima di quello stesso Bonifazio, contro il quale tanta ira e non

senza ragione aveva concepito 1' esule fiorentino, e ai tanti

rimproveri, scagliati contro il Papa, questo altro avrebbe po-

tuto aggiungere di aver fatto languire nel fondo di una car-

cere chi aveva l' aria più di matto che di pericoloso nemico.

Di questo strano silenzio qualcuno potrebbe avventurare questa

spiegazione, che il frate da Todi messosi dalla parte dei Co-

lonna, al pari di loro sosteneva non potersi rinunziare al Pa-

pato, non essendovi al di sopra del Papa nessun' altra autorità

nelle cui mani si possa rassegnare l'alto ufficio; né quindi aversi

a tenere Bonifacio come legittimamente eletto, essendo nullo il

gran rifiuto del suo predecessore. Alle quali dottrine per fermo

Dante non acconsente; poiché sebbene faccia dire da S. Pietro

vacante il loco suo, quando di fatto 1' occupava Bonifazio, pure

si deve intendere questa vacanza solo al cospetto di Gesù, che

é il giudice supremo, non al cospetto degli uomini, i quali per

indegno che sia, debbono pur riconoscere, fino che altri non gli

sottentri, il supremo Gerarca. E però l' attentato dei Colonnesi

Dante tiene per sacrilego:

Veggo in Alagna entrar lo fiordaliso

E nel Vicario suo Cristo esser catto (').

Ma questa .spiegazione, per quanto fondata su buoni argomenti,

non renderebbe però pieno conto della reticenza Dantesca, poi-

ché non solo di Jacopone tace il divino poeta, ma benanco di

Pier di Giovanni Olivi, il quale, benché capo degli Spirituali,

rifiuta la speciosa teoria dei Colonna, ed in una lettera a Cor-

rado d' Offida biasima severamente quelli del suo stesso partito

che la professano senza avvedersi che a tal modo riuscirebbero

a ribadire sul capo di qualunque indegno la sacra tiara (*). Forse

 

 

(') Purgai. XX, 86.

(') Su questa lettera pubblicata dal Jeiler nel Histor. Jahrb. HI, 649 cfr. quel

che ne scrissi nell' articolo : / Fraticelli o poveri eremiti di Celestino, Bollettino

della società storica Abruzzese, anno VII. p. 139.

 

 

— 19 —

di questa lettera Dante non ebbe contezza alcuna, ma che egli

non abbia conosciuto in alcun modo il capo degli Spirituali

sembra improbabile. Poiché 1' Olivi tra il 1277 e il 1278 fu man-

dato come lettore a Firenze da quello stesso fra Matteo d' Acqua-

sparta, allora generale, che il nostro Poeta oppone ad Ubertino

da Casale. Non voglio negare, che in quell' anno Dante avesse

il capo pili agli amori ed ai versi che ai frati e alla teologia. Né

si potrebbe affermare che alla scuola del nuovo lettore egli si

recasse, o che dei dissensi dei Minoriti fino da quel tempo fosse

informato. Tuttavia 1' Olivi non era un frate qualunque, e veniva

a Firenze preceduto da una gran fama, essendo egli uno dei

capi del movimento spiritualistico della Provenza, e se non fu

potuto convincere d' errore nel processo contro di lui istruito^

era pur tenuto come uno dei più pericolosi agitatori, ed il Gene-

rale, pur non potendolo punire, pensò bene di mandarlo in una

provincia lontana, dove certo avrebbe trovato men seguito (').

Che Dante ignorasse affatto quale ospite fosse testé entrato nel

Convento di S. Croce non si può supporre. E qualche cosa più

tardi delle teorie filosofiche dell' Olivi par che abbia saputo, se a

lui si riferisce il luogo del Purgatorio dove ribatte *

Queir error che crede

Che un' anima sovr' altra in noi s' accenda (*).

Tuttavia egli non lo nomina mai esplicitamente, e quando a

Matteo d' Acquasparta ebbe ad opporre qualche spirituale, ad-

dusse, come vedemmo, non senza un leggero anacronismo, Uber-

tino, ma non 1' Olivi, che avrebbe fatto più al caso, come quello

che fu veramente alle prese coli' Acquaspartano.

E come tace del frate provenzale, cosi ignora perfino il nome

di quelle eresie, che nell' agitazione spiritualistica metton capo.

 

 

(') F. Ehrle, Petrtis Johannis Olivi, sein Leben und scine SchrifUn in Archiv

fiìr Litteratur und Kirchengeschichte III, 431.

(^) Purg. IV, 5. Vedi Umberto Cosmo, Le mistiche uozse di fra Francesco

con Madonna Povertà, p. 56.

 

 

— 20 —

come a dire i bìzochi condannati da Bonifacio Vili e i be-

ghini più recentemente colpiti nel concilio di Vienna. Tutte

queste reticenze non si possono spiegare, se non vogliamo spo-

gliarci del preconcetto che le cognizioni storiche di Dante sieno

alla stessa altezza dei suoi pensieri filosofici o teologici, o peggio

ancora delle sue creazioni poetiche. A parer mio non si può

revocare in dubbio che il divino poeta delle eresie a lui con-

temporanee abbia una scarsa e malsicura notizia per non dir

nulla delle più antiche. Tra gli eretici egli non rileva se non gli

Epicurei, che si possono dire miscredenti quanto volete, ma

eretici nello stretto senso della parola no di certo. Con sif-

fatto criterio Dante avrebbe dovuto mettere nelle tombe info-

cate anche Averroè, il quale certo più di Epicuro si allontanò

dalla religione dei suoi padri. Si vede bene che il nostro poeta

sotto il nome di Epicurei non intende veramente una setta filo-

sofica, ma ben piuttosto i buontemponi quali li descrive Orazio,

gì' increduli pratici, dei quali non faceva difetto neanche nel-

l'età della maggior fede. Né Farinata degli liberti, né il Caval-

canti, né il Cardinale Ubaldini erano filosofi per quel che noi

si sappia, né tampoco Federico II per quanto sia stato amante

e protettore delle lettere e delle scienze. Tra le eresie più an-

tiche poi Dante non cita se non quella di Fotino, il quale col

patriarca Acacio acconsenti al famoso Henoticòn dell' imperatore

greco nel 482. Questo era, come suona la parola, un editto

di conciliazione col quale si sperava di troncare le agitazioni

monofisitiche, e non eresia s' ha da dire, ma tentativo di farla

finita con le questioni ereticali. Il papa Anastasio II non fece

buon viso all' editto, ma non credette bene di spingere le cose

all' estremo, ed in una lettera che ancor si conserva all' impera-

tore acconsenti che i sacramenti amministrati dal patriarca e

gli ordini da lui conferiti si tenessero valevoli purché il nome

di Acacio si cancellasse dai ricordi della Chiesa (*). Questa è la

 

 

(*) Vedi r articolo del Thiel sotto la voce Anastasius II nel Wttser und

Welte' s KirchenUxicon, a*' Aufl.

 

 

— 21 —

voluta eresia che Dante mette accanto all'epicurea. Qualche ma-

ligno potrebbe sospettare che l' iroso poeta non si ricordi di Po-

tino se non per mettere nell' avello infocato Papa Anastasio, il

quale a ragione della sua arrendevolezza fu accusato di eresia

anche lui, e la voce, malevola trasmessa dai cronisti e perfino

da Graziano, Dante raccolse. Così ebbe modo di mettere nell'in-

ferno il papa sedotto, ma del seduttore non dice nulla e par che

lo citi solo prò memoria, come farà più tardi di Ario e di Sabellio

Che furon come spade alle scritture

In render torti li diritti volti (')•

Né questo è tutto. Tra le eresie più recenti Dante non cita se

non quella di fra Dolcino, il quale è messo tra gli scismatici non

tra gli eretici. Nel linguaggio ecclesiastico scisma è da meno

dell' eresia, poiché non importa negazione o dubbio su nessun

punto dommatico, e talvolta tra due papi o due vescovi, che si

scomunicavano a vicenda, era ben difficile la scelta, e solo il

successo decideva. Ma per Dante lo scisma è peggiore dell' ere-

sia; poiché secondo lui nello scisma non si tratta solo di una

veduta teoretica intorno ai dogmi religiosi, ma di una malvagità

pratica che suscita tra gli uomini odii e scissure. E importa

nulla che chi ha seminato tante rovine sia o un fondatore di

una nuova religione, come Maometto, o un sovvertitore del-

l' antica come Dolcino, o anche un semplice mettimale come Pier

da Medicina o Beltran del Bornio. La gravezza della loro colpa

sta nel sangue che si è sparso. Chi vuole imporre le proprie

idee col ferro e col fuoco è più colpevole e va più gravemente

punito di chi filosofando o teologizzando riesca a conseguenze

poco ortodosse (').

Da tutte queste considerazioni possiamo concludere che Dante

ha dell' eresia un concetto vago e par che storicamente poco la

 

 

(") Farad. XIII, 127.

(*) Vedi più appresso Io studio: Ouistioni dantesche.

 

 

— 22 —

conosca, e se anche di qualche eresia del suo tempo ebbe con-

tezza, non ne fece gran caso. Non dobbiamo dimenticare che

r Eresia medievale nasce in gran parte dall' esagerazione di quel-

r ascetismo, che il mondo e la carne non solo mette insieme col

diavolo, ma li dice addirittura creati da lui. Uno spirito equili-

brato come Dante, che anche nei suoi impeti e negli scatti di

sdegno non perde la misura, non poteva sentire alcuna simpatia

per quelle intemperanze, che facevano guerra a quanto gli uo-

mini hanno di più caro. Egli a capo della cultura del suo tempo

non poteva fare gran caso di quel moto ereticale, che al rifiorire

degli studi avrebbe nociuto. Ricordiamo come il movimento spi-

ritualista francescano fosse alle lettere fieramente nemico, e per

questo Dante non poteva essergli favorevole. Egli loda, come

dicemmo, ed esalta la povertà, in grazia della quale il venerabile

Bernardo si scalzò primo e poscia scalzasi Egidio e scalzasi Sil-

vestro. Conosce il testamento di S. Francesco :

Ai frati suoi si come a giuste erede

Raccomandò la sua donna più cara

E comandò che 1' amassero a fede (').

Sa del racconto di fra Leone, che S. Francesco volle morire sul

nudo suolo

E del suo grembo (della povertà) l'anima preclara

Mover si volle tornando al suo regno

Ed al suo corpo non volle altra bara ('•^).

Tuttavia non acconsente alle esagerazioni degli spirituali, e sulla

scorta di S. Bonaventura loda il giusto mezzo tra V Acquasparta

che fugge la regola ed Ubertino che la coarta. Un altro esempio

ancora. Per la mistica medievale egli ha tale predilezione che

accanto a S. Tommaso mette Riccardo,

Che a considerar fu più che viro (')

 

 

(') Farad. XI, 112.

(") Farad. XI, 115.

(") Farad. X, 132.

 

 

— 23 —

ed accanto a S. Bonaventura Ugo da S. Vittore, e più in alto,

come vedemmo, S. Bernardo. Ma anche in questo traluce la

temperanza del nostro Poeta, che la teologia mistica considera

non opposta alla teologia raziocinante, bensì qual suo naturale

compimento. Quel contrasto che alcuni tedeschi s' ingegnarono

di scoprire tra il Convito e la Commedia non esiste. Poiché

anche nel Convito alla ragione si pongono i giusti confini, e nella

Commedia S. Bernardo, il contempiante per antonomasia,

Libero ufficio di dottore assunse (').

Posso adunque concludere che la ragione ultima perché Dante

non cita 1' eresia, della quale egli si può dire è testimonio, è per-

ché o non la conosce o non 1' apprezza e la tien tutta come il

moto dei Flagellanti, quale scoppio improvviso di fanatismo, che

turba ma non rinnova. L' eresia è come uno sterpo, nel quale

S. Domenico ebbe ragione di percuotere ,

quasi torrente ch'alta vena preme (').

Ecco adunque un' altra e più riposta ragione alle tante, che

furono addotte, per scagionare Dante di eresia. Dante è tanto

poco eretico, che il valore stesso dell' eresia e l' ardore religioso

che la promuove, sconosce affatto. Eppure non è dubbio che se

qualche inquisitore 1' avesse potuto citare al suo tribunale, non

si sarebbe contentato di ribadire la condanna del 1302, come

fecero i Fiorentini nel 1315, ma 1' avrebbe di peggio aggravata.

Né questa è una mia congettura: poiché ormai ben pochi dubi-

tano della notizia data dal Boccaccio " Tornatosi il detto Ludovico

dalla Magna, e li suoi seguaci e massimamente li cherici, venuti

al dichino e dispersi; il detto Cardinale (Messer Beltrando car-

dinal del Poggetto e legato del Papa nelle parti di Lombardia

 

 

C) Farad. XXXII, 2. Vedi F. Hettixger, Dante' s GeisUsgartg. KOln 1888

pp. 56^.

(") Farad. XU, 99.

 

 

— 24 -

sedente Papa Giovanni XXII), non essendo chi a ciò si oppo-

nesse, avuto il soprascritto libro, (la Monarchia à\ Dante) quello

in pubblico, siccome cose eretiche contenente, dannò al fuoco,

E '1 simigliante si sforzava di fare dell' ossa dell' autore a eterna

infamia e confusione della sua memoria, se a ciò non si fosse

opposto un valoroso e nobile cavaliere fiorentino, il cui nome fu

Pino della Tosa, il quale allora a Bologna, dove ciò si trattava,

si trovò, e con lui messer Ostagio da Polenta, potente ciascuno

assai nel cospetto del cardinale sopra detto „ ('). Presso a poco

nello stesso tempo si faceva un processo contro i Ghibellini di

Todi, parecchi dei quali non eran neanche sospetti di etero-

dossia, né furono chiamati in giudizio se non per un fatto esclu-

sivamente politico, r avere accolto le genti di Ludovico il Ba-

varo ('). La confusione della politica colla religione non è di

data recente, ed anche allora chi non obbediva ciecamente al

Vaticanismo regio correva il rischio di sentirsi dare dell' eretico

o peggio. E a questa stregua certamente Dante doveva essere

tenuto come un eretico; poiché sebbene non avesse mai dubitato

delle verità di fede e per poco che gli si affacciasse qualche dif-

ficoltà insormontabile la troncava di botto col famoso Verso:

State contenti umane genti al quia (');

pure egli fu il primo a ridurre le idee dei ghibellini ad una

teoria compiuta e fornita, fin dove si poteva, delle migliori di-

mostrazioni. Questa teoria ghibellina, che in fin dei conti riusciva

alle stesse conclusioni di Arnaldo da Brescia, era agli occhi del

legato di Giovanni XXII pili ereticale della dottrina dei begardi,

e dettata secondo lui dallo stesso spirito di licenza, che animava

i tardi seguaci di Amorico. Non si legge anche oggi in certi

 

 

(') La Vita di Dante scrìtta da G. Boccaccio. Testo critico di Francesco

Macrì-Leone p. 73.

(') V. il processo pubblicato dal P. Ehrle nell' Archiv fiir L. und Kirchtn-

geschichte II, 653.

(') Purgat. Ili, 37.

 

 

— 25 -

giornali che liberale e libertino fanno tutt'uno? Il Cardinale del

Poggetto aveva ragione e conosceva i suoi polli meglio di quel

che non facciano certi moderni, i quali sostengono non avere

mai Dante condannato il potere temporale, o il dominio del

patrimonio di S. Pietro, anzi avere ripreso i Longobardi che vi

attentarono, e lodato i Franchi, che dal flagello liberarono la

Chiesa.

E quando il dente lon^bardo morse

La santa Chiesa, sotto alle sue ali

Carlo Magno, vincendo, la soccorse (').

Chi ragiona a questo modo, dimentica che al tempo di Dante

non si faceva quistione del patrimonio, ma ben piuttosto se il

Papato dovesse imperare non pure nell'ordine spirituale ma nel

politico. Né certo il Papa si sarebbe contentato di essere a capo

di un feudo, come tanti altri vescovi; né la quistione del patri-

monio riguardava altra parte d' Italia all' infuori di Roma e della

Marca, e si trattava non di un principato, quale si costituì più

tardi al tempo delle monarchie, ma solo di certe preminenze e

dritti patrimoniali, che non toglievano nulla all' autonomia dei

Comuni (*). Siffatte preminenze Dante non aveva alcun interesse

a negare, ma non si curò mai d' indagare fino a qual punto si

dovessero estendere. Non rimpiccioliamo i fatti a forza di guar-

darci addentro. La contesa, che s' agitava al tempo di Bonifacio,

e si riacui con Giovanni XXII, non era del patrimonio, ma bensì

della supremazia suU' impero, e Dante codesta supremazia nega,

ed è forse 11 primo che all' immagine adoperata dalla Curia del

sole, rappresentante il Papa, e della luna, raffigurante l' Impera-

tore, sostituisce r altra di due soli, che non si possono né illu-

minare né oscurare a vicenda, e in questo almeno siamo tutti

d' accordo, né vale la pena d* insistere più oltre.

 

 

(") Farad. VI, 94.

(*) V. Kraus, Dantt, Stin Ltben und seiii Werk. Berlin, 1897 pp. 717, 719.

 

 

- 26 -

Ma non solo per queste idee ghibelline Dante sarebbe stato

condannato, anzi più ancora per il concetto che egli s'era fisso

in mente di una riforma della Chiesa non nel domma o nelle

dottrine, ma nella condotta della vita. I suoi disegni politici non

si sarebbero potuti attuare se nella Chiesa stessa non fosse alitato

uno spirito nuovo; se alla sete degli onori e delle ricchezze non

fosse sottentrato l' amore della povertà e dell' umiltà, come era

sentito nei primi tempi del Cristianesimo avanti alla supposta

donazione di Costantino. Ho detto più su che Dante non fa buon

viso alle intemperanze degli spirituali, e i bizochi o beghini non

li nomina neanche. Ma non dobbiamo inferirne, come fa taluno,

che li confonda col loglio, a cui presto sarà negata 1' arca. Tra

i due estremi opposti, quelli che si mettono fuori della regola o

la fuggono, sono rappresentati da Matteo d' Acquasparta, il quale

divenuto Principe della Chiesa si mescolò nei negozii politici e

da Bonifazio fu mandato a Firenze non per mettere pace, ma

per favorire quella parte che alle mire politiche del pontefice

meno resisteva. L' Acquaspartano è dunque il simbolo del minorità

politicante, la caricatura del vero Francescano, il loglio che non

ha del grano se non una vaga sembianza. A codesto loglio, o

alla parte più rilassata, aggiunge il Poeta, ben presto provve-

derà il concilio di Vienna, prescrivendo 1' uso povero, e vietan-

dole r arca o i ben provvisti granai ('). Interpretata in tal modo

la famosa terzina non istona con tutto il resto, e mostra che se

Dante non segue gli Spirituali in tutte le loro intemperanze, nel

principio che li anima è affatto d' accordo con loro, e non una

ma più volte e nella Monarchia e nella Commèdia adopera il

loro stesso linguaggio, e la difficoltà sta solo nel determinare

quale degli scrittori spirituali sia più noto al nostro poeta; poi-

ché tutti costoro a cominciare dal glossatore Gherardo di S. Don-

nino si rassomigliano, tutti contro la corruzione del clero usano

un linguaggio violento e d' un crudo realismo, tutti attingono le

 

 

(') Ballettino della Società Dantesca italiana. Nuova Serie, Voi. 6, fase. 6 p. 123.

 

 

— 27 —

loro ispirazioni all' Apocalisse, tutti fanno distinzione tra la

Chiesa carnale e la spirituale, e la prima raffigurano, come fu

anche Dante, nella donna che siede sopra le acque coi regi traf-

ficando, senonché le ricerche recenti del Kraus e del Cosmo,

indipendenti l' uno dall' altro, servono a provare che più di

tutte le altre opere conosce Dante Y arbor vitae crucifixae di

Ubertino, le cui immagini talvolta adopera come quando dice

che la Povertà sali in Croce con Gesù, mentre Maria restò in

basso ('). Ed anche in senso spiritualistico è quella terribile vi-

sione del Purgatorio, in che il sacro carro legato all' arbore ro-

busto si trasforma agli occhi dell' attonito poeta in un animale a

cinque teste:

Tre sovra il temo ed una in ciascun canto.

Le prime eran cornute come bue

Ma le quattro un sol corno avean per fronte,

Simile mostro visto ancor non fue {*).

Sullo strano animale siede una donna con le ciglia intorno pronte,

e a lei di costa è un gigante.

E baciavansi insieme alcuna volta:

Ma perché l' occhio cupido e vagante

A me rivolse (la donna), quel feroce drudo

La flagellò dal capo insin le piante (*).

Tutta la letteratura spirituale avea raffigurato nel santo carro

la Chiesa, nella donna impudica la Curia e il clero corrotto, nel

gigante i re e i potenti, che trafficano con lei; ma nessuno avea

avuto r ardire di trasformare il carro in animale, nessuno avea

saputo dipingere cosi al vivo la trasformazione da incutere ter-

rore anche a un lettore dei nostri giorni. Con una fantasia cosi

potente non è meraviglia che anche Dante meglio degli altri

spirituali si esalti, e creda di leggere nell' avvenire, e benché gli

 

 

{') Kraus, op. cit. p. 745. Cosmo, Le nozze ecc. p. 14.

i^) Purg. XXXII, 144.

(') Purg. XXXU, 153.

 

 

~ 28 —

avvenimenti lo smentiscano di giorno in giorno, pure ha una

fede viva che fra non molto

.... Un cinquecento dieci e cinque

Messo di Dio anciderà la fuia

Con quel gigante che con lei delinque (').

Chi sia per essere questo duce fortunato, chi quel veltro, che

sarà la salute d' Italia, egli non dice né doveva dire. Sarà forse

un imperatore più fortunato di Arrigo VII, sarà forse un papa

angelico, come lo chiamano i profeti medievali, che ben cono-

scendo i bisogni della Chiesa e sfrancatosi dalla soggezione An-

gioina, cesserà di muover guerra al sacro impero. Saranno forse

tutte e due insieme, un generoso e ardito imperatore e un santo

pontefice, come diranno più tardi il Petrarca e il cosidetto Te-

lesforo di Cosenza. Anche ai veggenti più lontano l'avvenire

non si mostra con contorni definiti, né si ha da chiedere loro

quel che non possono dare.

Certo è che Dante, come ha ben rilevato il Doellinger,

si mette da sé tra i profeti medievali, anzi più di loro vede

nella sua commossa fantasia il futuro come presente, né s' in-

dugia in calcoli faticosi o in esegesi minute dei libri sacri.

Onde è che egli non dubita di mettere nel Paradiso il capo

di tutta questa letteratura profetica, il calavrese abate Gioac-

chino. A prima giunta parrà strano come Dante levi cosi

alto il Florense, la cui polemica contro Pier Lombardo fu con-

dannata in un solenne concilio, e le altre opere andarono tra-

volte nella condanna dell' Evangelio eterno. Più strano ancora

che r elogio di Gioacchino lo faccia S. Bonaventura, che aveva

dovuto prendere misure severe contro i Gioachimiti dopo la

condanna dell' Evangelo eterno. Oltreché S. Tommaso aveva

esplicitamente rifiutato a Gioacchino il dono profetico e delle

 

 

(') DOllinger, Dante als Prophet (Akad. Vortràge, I). Cfr. G. De Leva negli

Atti del R. Istituto Veneto, Tom. VI, Serie VI.

 

 

— 29 —

previsioni di lui non faceva maggior conto se non come di con-

ghietture, in parte smentite dai fatti. Parrà strano, ma è così.

Dante mette in bocca anche alle persone più venerate non quel

che essi avevano pensato, ma quel che pensa lui. Egli non è te-

nuto a far da storico, e nel divino poema non esprime le idee

degli altri ma le sue. E per lui, benché in qualche punto di po-

lemica teologica si sia sbagliato 1* abate florense, pure di fatto

egli è

Di spirito profetico dotato (') ;

perché vede ed annunzia a non dubitare una terza età, nella

quale la Chiesa sarà rinnovata non nel domma ma nei costumi.

Gioacchino è sinceramente cattolico e vuole e predice una ri-

forma non fuori ma dentro la Chiesa. E questo ripeto è pure il

sogno di Dante, Egli esaminato da S. Pietro rispose a tutte le

dimande in modo si schiettamente ortodosso, da essere bene-

detto e tre volte abbracciato dall' apostolico lume. Nella sua

Commedia il poeta parla talvolta come un dottore od un teologo,

e senza esagerazione può dire di sé:

Se mai continga che il poema sacro ...

Vinca la crudeltà, che fuor mi serra

Dal bello ovile... in sul fonte

Del mio battesmo prenderò il cappello (').

Quando dunque Dante flagella la Chiesa non è per opporsele,

ma per richiamarla alla sua santità e purità primitiva, per infon-

derle la ferma convinzione che gì' interessi spirituali debbono

vincere i temporali, sicché non abbia più oltre da porre inciampi

a queir altra grande istituzione, proveniente direttamente da Dio,

che è r impero, ma bene aiutarla per la salute d' Italia e del

mondo. Questa riforma della Chiesa nella Chiesa, che la metta

d' accordo coli' ambiente politico e intellettuale del proprio tempo,

 

 

(M Farad. XII, 140.

(") Purgat. XXV, i.

 

 

— 30 —

fu un bisogno vivamente sentito dai più schietti cattolici fra noi,

cosi da Dante e dal Petrarca come dal Savonarola e dal Ro-

smini ('). Ma in tutti i tempi gli sforzi di questi nobili cuori si rup-

pero contro le intransigenze degli uni e l' indifferenza degli altri.

Ed anche oggi come al tempo di Dante quella parte, non certo

la men numerosa, di cattolici, che vorrebbe por fine ad un dis-

sidio dannoso a tutti e senza vantaggio per alcuno, non ha modo

di fare, non dico valere ma neanche udire la sua voce. Anche oggi

come al secolo di Dante 1' avvenire si presenta bujo, né per ora

si vede barlume di speranza. Ma se mai verranno tempi migliori,

se dopo tante tempeste parrà il sereno, se le autorità supreme,

che or si combattono, sapranno mettersi d' accordo ed intendere

i loro veri interessi, le ossa del divino poeta esulteranno, e

brillerà di nova luce quello spirito profetico, che sei secoli or

sono seppe aprire alla Chiesa e allo Stato la via maestra della

comune salvezza.

 

 

(*) Tocco, // Savonarola e la Profezia. ( La Vita italiana nel Rinascimento.

Milano, fratelli Treves ).

 

 

DOCUMENTI

 

 

Avevo già trascritte ad illustrazione della conferenza le de-

posizioni più importanti del 1244 e 45, non pubblicate dal Lami,

e le sentenze 11 Agosto 1245 ^ ^3 agosto 1313 anch'esse inedite,

quando il Dott. Giovanni Ristori, Priore dei SS. Apostoli di Fi-

renze, mise a mia disposizione tutto il materiale da lui raccolto da

molto tempo con grande amore ed accorgimento. Egli da parecchi

anni attende ad un lavoro completo sull'eresia fiorentina, e non

ha trascurato di attingere informazioni non solo all' archivio e

alle biblioteche di Firenze, ma benanche a Roma, a Lucca, a Pisa

€ altrove. E per conformarmi ai suoi desiderii, io pubblico qui

tutta quella parte, che si riferisce ai tempi di Dante, Alcuni di

questi documenti furono già pubblicati dal Lami, ma con tali

omissioni, che spesso ne va falsato il senso, come agevolmente

può vedere chiunque confronti il testo della sentenza 24 Ot-

tobre 1245, come è dato dal Santini e qui appresso, con quello

che si legge a p. 575 delle Antichità Toscane.

Molti altri docu-

menti ha raccolti il Dott. Ristori, ma si riferiscono a tempi ante-

riori o posteriori all' epoca Dantesca, e non entrano nel mio di-

segno. Soltanto mi sia lecito di affrettare coi miei voti il giorno,

in che il dotto ed operoso prelato vorrà arricchire la nostra

letteratura storica di si pregevoli contributi.

I documenti sono ordinati secondo le date che portano negli

originali. Una sola eccezione ho creduto opportuno di fare ri-

guardo ai documenti 7 - 11, che contengono costituti evidente-

mente precedenti la sentenza, e la cui data si riferisce non al

Tocco. 3

 

 

— 34 —

costituto stesso, ma bensì al tempo in che il notajo ne stese o

r atto autentico, o la copia autenticata. In rarissimi casi, e quando

non v' era dubbio di sorta, alla lezione errata della pergamena

ho sostituita la corretta. In tutto il resto ho seguito fedelmente

gli originali anche nella grafia.

Doc N. 1.

S. Maria Novella — 27 novembre 1244.

Maria filia olim Ruggieri de Pulicciano iurata dixit, quod in

Madio proxime venturo erunt v anni, quod secundo reddiit ad he-

reticos, et tunc venit ad domum Diotaiuti medici, in qua capti fue-

runt lohannes et Restaurus heretici. Et tunc stetit ibi plusquam per

XV dies sed nonduni erat consolata, ipso Diotaiuti et eius uxore

detinentibus et eam recipientibus; et postea de ipsa domo ivit

ultra Arnum ad domum Monachie, quae erat in populo sancti

lacobi, ipso Monachia et eius uxore detinentibus et recipientibus

eam sed nondum erat consolata. Postea vero de ipsa domo ivit ad

Ronchum ad domum Fornarii, in qua morabatur quidam laborator

nomine lohannes et qui eorum erant credentes heresi cum eius

uxore Piacilla, et in ipsa domo tunc fuit consolata a lohanne, qui

captus nuper fuit, set nominis socii tunc ipsius lohannis non re-

cordatur. £t stetit tunc ibi tantum per unam noctem et rediit ad

domum dicti Monachie. Uxor eius vocabatur Altobene. Et tunc

dieta Altobene fecit eidem reverenziam, et adoravit eam et sociam

eius nomine Bonam similiter consolatam. Item dicit, quod ipsa et

eius socia Bona consolate reddierunt ad domum dicti Diotaiuti

et ipso sciente steterunt tunc ibi plusquam per xv dies. Et uxor

dicti Diotaiuti pluries fecit eis reverentiam. Item dicit quod inde ivit

ad domum' Renaldi del Pulce, ipso domino Renaldo et eius uxore

et aliis de familia recipientibus eas et tenentibus. Et steterunt tunc

ibi per iiij menses et plus. Item dicit, quod reddiit Ronchum

ad domum supradicti Fornarii, in qua morabatur adhuc dictus

lohannes laborator cum dieta sua uxore Piacilla et ibi stetit tunc

ad mensa {sic) cum societate sua pluribus annis, ipso Fornario et

omnibus de familia sua, nec prima vice nec secunda aliquid inde

scientibus.

Item dicit, quod inde venit ad domum Tomasii et matris eius

domine Alfanie, in qua postmodum fuit capta cum Gemma sozia

 

 

— 35 —

sua, ipsa domina Alfania eas ad se vocante per quamdam fa-

mulam nomine Claram, et steterunt tunc ibi plusquam per unum

mensem, dicto Thomasio et eius uxore et matre, scilicet domina

Alfania, scientibus, quae domina Alfania pluries eis fecit reveren-

ziam. Item dicit quod, dum esset in dieta domo, quidam heretici,

tres vel luj, ex quibus erant duo Consolati, quorum unus voca-

batur lohannes, venerunt ad ipsani domum et hospitati sunt ibi

per unam noctem, dieta domina Alfania eos recipiente et ho-

spitante.

Item dicit, quod in domo dicti Monachie vidit quemdam he-

reticum consolatum, nomine Maffeum et cum eo Martellum, quos

dicit postea conbustos fuisse Pisis.

Item dicit, quod in domo domini Rinaldi del Pulce vidit quos-

dam hereticos consolatos, quorum unus vocabatur lohannes de

Senis, nominis vero alterius non recordatur.

Actum in Hospitale sancti Galli millesimo dugentesimo iiij die

dominico nij exeunte Novemb. Indictione secunda, coram fratre

Nicolao de Burgo et fratre Donato fiorentino, fratribus commo-

rantibus apud Sanctam Mariam Novellam.

Pubblicata dal Lami Lez. di Antichità Toscane e. JJJ ; dal Mamachi Annalium

Praedicatorum Tom. I, Roma ijjó, e infine dal Fineschi Memorie storiche di

S.* M.* Novella, Firenze 1790, che copia in gran parte dal Lami, riproducendo

le omissioni e le false letture. Esiste aiuhe nel cod. Barberini 122& carte 14 j.

Doc. N. 2.

S. Maria Novella — 26 gennaio 1244.

Die lovis vj exeunte lanuario actum Prati. Andreas filius

Ugolini, qui fuit de Civitella Comitatus Aretij et erat Castel-

lanus.... dixit interrogatus quod ipse est hereticus consolatus et

consolatus fuit ab hereticis iam xiij vel xiiij annis et dixit quod

consolationem recepit apud Pratum a Marchisciano consolato et

quibusdam aliis in domo Borristori.

Et dixit interrogatus, quod panis et vinum, quod sacrificatur

a sacerdote in altari, non est Corpus aut Sanguis Christi, set

dixit ipsum esse elementatum ex quatuor elementis et corrupti-

bile est.

Item dixit interrogatus quod non credit resurrectionem cor-

porum, et quod suum corpus non resurget, et quod tantum rever-

tuntur in terram, et non vult suum corpus resurgere.

 

 

- 36-

Item dixit quod Christus non venit nisi ad salvandum fratres,

qui decederunt de celos, et illi soli salvabuntur, si penitentiam

fecerint.

Item dixit interrogatus, quod non credit virum cum uxore sua

in matrimonio carnali salvari possit.

Item dixit quod Christus prohibuit comedere carnes.

Item dixit, quod in baptismo aque non datur gratia Spiritus

Sancti, nisi ille qui battizatur recipiat ab hereticis manuum im-

positionem.

Item dixit quod iurare est peccatum et prohibltum.

Item dixit, quod si omnes homines de mundo vellent redire

ad fidem suam, ipse non iuraret fidem suam esse bonam.

Item dixit quod beata Virgo portavit carnem de celo et ipsam

reportavit in celum, et quod caro eius non fuerit de substantia

carnis humane.

Item dixit quod Christus non comedit nec bibit cibum vel

potum corporalem et corruptibilem.

Item dixit quod apud Deum peccatum faciunt potestates cor-

poraliter puniendo malefatores.

Item dixit quod Christus non habuit carnem humanam.

Item dixit quod Ecclesia Romana non est Ecclesia Dei.

Item dixit quod nemo salvari potest nisi recipiat peccatorum

remissionem per manuum impositionem ab illis hominibus, quos

dicimus Paterini.

In die predicta Albanus hereticus filius Martinelli, qui con-

buxtus fuit, in sua examinatione dixit iuratus, quod a duobus

annis citra fuit consolatus, et consolationem recepit in civitate

Florentie a Torsello, una cum Gemma de Caccialupis et in domo

domine Renaldi de Pulce.

Item dixit in omnibus et per omnia, ut Andreas.

In Dei nomine Amen. Ego frater Rogerius ordinis Predica-

torum fratrum Inquisitor domini Pape hereticorum in Tuscia

constitutus. Quia constare michi per confessiones Andree et Al-

bani hereticorum, ipsos esse de Paterinorum secta et hereticos

consolatos et a Sancte Romane Ecclesie fide separatos, ha-

bito sapientum Consilio, Dei omnipotentis nomine invocato, ipsos

sepe humiliter monitos et inductos, ut ad fidem redirent et cato-

licam unitatem, quod quidem Tacere contempserunt, pronuncio

ipsos esse hereticos consolatos, et a fide sancte Romane Ecclesie

 

 

— 37 —

separatos, et condemno ipsos relinquens iudicio seculari. Mille-

simo ccxLiiij die lovis vj exeunte lanuario, letta et recitata in Ec-

clesia Plebis coram populo congregato et dictis hereticis et corani

testibus Donato, Nero et Bonalberto filio Bondoni et fratre An-

brosio de Florentia.

Pubbl. dal Latiti I.ez. di Antichità Toscane e. jjj ed esistente nel cod. barò. fi. 144.

Doc. N. 3.

S. Maria Novella — 30 Gennaio 124-t.

Die Lune secundo exeunte lanuario, Dominus Ardingus Epi-

scopus Florentinus et frater Rogerius, quesierunt a Bene Me-

dico nomine iuramenti et sub pena eisdem ab eo promissa, si

ab viij mensibus citra fuerunt eo sciente in domo sua, quam di-

citur vendidisse, aliqui vel alique, consolate heretice; qui re-

spondit, quod non.

Item si Albense de Senis consolata, que rediit ad fidem,

stetit in domo sua; aut Contelda, quae rediit ad fidem, vel aliqua,

de qua dubitare! de heresi: qui respondit, quod non.

Item die Lune vj intrante Martio, Bene medicus predictus

iuratus dixit, quod ab eo tempore citra, quo Imperator fuit in

obsidione Faventie, fuit credens et receptator Paterinorum, et eos

adoravit in domo sua, et dedit eis conmedere et cum eis conmedit

per tres vices. Interrogatus de nominibus hereticorum, qui fue-

runt in domo sua, et quos adoravit: respondit, Johannes, Tor-

sellus, Cittadinus et Altomannus et filius eiusdem Altomanni, Al-

bese, Contelda, que vocatur Benincasa, AUegrancia, Meliore, que

combuste fuerunt, et alii de nominibus quorum non recordatur.

Item dixit quod iam sunt anni et plus quod quidam nomine

Phylippus cum quodam socio suo heretici fuerunt in domo sua.

Item dixit quod Albertus filius Gerardi Seracini nepos eius

est consolatus licet, non interfuerit consolationi, et dixit quod post-

quam consolationem recepii, vidit ipsum in domo sua.

Item dixit quod est annus et plus, quod ivit ipse Bene ad

domum Assenne prope Ponticellum ad uxorem Cavalcantis de

Maccis consolatam, et ibi vidit Assennam et mj""" hereticos con-

solatos, unus quorum vocabatur Andreas qui combustus fuit; et

di.xit quod tunc ibi erat filia ipsius Cavalcantis uxqr Assenne,

et dixit quod fecit illis hereticis reverentiam. ^

 

 

-38-

Item dixit quod lacoba consolata fuit in domo sua.

Item dixit, quod anno preterito, licet non recordetur de mense

nec de die, ivit ad domum Guidonis Bauncini ad videndos here-

ticos, et tunc vidit ibi Torsellum et socium eius et Scottam et

Guidonem Bauncini et eius uxorem, et eos adoravit.

Item dixit quod ivit ad domum Malachie ultra Arnum ad me-

dendum Scottam hereticam, que rediit ad fidem et dicit quod

cum Scotta erat quedani alia mulier et iiij heretici consolati,

Inter quos erat dictus Torsellus, et tunc eos adoravit, et erat ibi

uxor Malachie.

Item dixit quod in domo Ghetti Bisignini vidit duos hereticos

consolatos, unus quorum erat sacerdos.

Item dixit quod est annus quod vidit duas hereticas consolatas

in domo filli Monsiri, una quarum patiebatur in gutture, et ivit

ipse causa medendi eam.

Item dixit quod in prima inquisitione facta a domino Episcopo

et fratre Roggerio in Capella domini Episcopi solo timore vere-

cundie deieravit et plura alia confessus est, que non sunt hic

scripta.

Pubbl. dal Lami Lez. di Antichità Toscane e. jjj. Cod. Barò. p. 146.

Doc. N. 4.

S. Maria Novella — 31 Gennaio 1244.

In Dei nomine Amen. Ego frater Rogerius ordinis Praedi-

catorum fratrum, Inquisitor domini Pape hereticorum in Tuscia

et D. Ardenghi Episcopi Fiorentini ludicis Ordinarli Vicarius

constitutus in hunc modum. Dilecto in Christo fratri et amico

karissimo fratri R. de ordine Predicatorum Ardingus benignitate

divina Florentinus Episcopus salutem et Apostolicam constantiam

et Elye. Vobis super facto Hereticorum committimus vices nostras

in examinando et sententiando secundum Deum et iustitiam. Quia

constat mihi, auditis et intellectis erroribus Bone uxoris Ricivuti

•de Popio heretice consolate, ipsam esse consolatam hereticam ma-

nifestam et a sancta Fide catholica deviare, et quod monita et ro-

gata humiliter, noluit de suis erroribus discedere, habito Consilio

nostrorum Fratrum et Dei Omnipotentis nomine invocato, per

sententiam iudico eam hereticam esse et tamquam hereticam

 

 

— 39 —

€t prò heretica, condepno eandem relinquens ipsam iudicio se-

culari.

Lata est hec sententia a dicto Fratre coram ipsa Bona apud

Ecclesiam sancte Marie Novelle, Millesimo ducentesimo quadra-

gesimo quarto, die Martis ultimo mensis lanuarij Indictione tertia,

et testibus rogatis Guittomanno Aldebrandini Guittonis Fidei ca-

pitaneo, Guillielmo notario filio olim Rugerii et Forense filio

olim Buoni.

Ego Guido Bellocci ludex et Notarius predictis omnibus in-

terfui et de mandato predicti F. Rogerij dictam sententiam scripsi

et publicavi.

Pubbl. dal Lami Lez. di Antichità Toscane e. jjg. Cod. barb. p. 146. Stando al-

l' indisiotie va corretto /* anno in 124J.

Doc. N. 5.

S. Maria Novella — 13 Marzo 1245.

In Dei nomine Amen. Anno Millesimo Ducentesimo Quadra-

gesimo quarto, tertio Idus Marcii Indicione tercia. Dominus Bonus

Lutheringhi Consul ludicum et Notariorum prò se et Orlandi Ru-

stichelli, cuius vicem habet, precepit Octaviano notario filio Mainetti

quod compleat Baroni filio quondam Baronis appellationem, quam

fecit prò eo coram Episcopo Fiorentino et coram fratre Ruggiero

de ordine Fratrum Predicatorum.

Factum fuit hoc preceptum in Palatio filiorum Galigarii, pre-

sentibus testibus Arlocto filio Guictonis Arlocti et Piero notario

filio Mellioris et aliis.

Ego Ubaldinus iudex et notarius et nunc in Curia Consulum

ludicum et Notariorum prò communi notario existens, predictum

preceptum me presente factum de mandato dicti ludicis domini

Boni publicavi et scripsi.

Pubblicato dal Santini Documenti p. 436-87. Cod. barb. p. 14J.

Doc. N. 6.

S. Maria Novella — 13 Marzo 1245.

In Dei nomine Amen. Dominus Pax Pesamigole de Bergamo

Dei gratia Florentie Potestas precepit Octaviano notario filio

 

 

— 40 —

Mainecti nomine iuramenti in pena librarum quinquaginta Pisa-

narum ut incontinenti conpleat et faciat Baroni filio quondam

Baronis scripturam et publicum instrumentum appellationis, quam

fecit coram domino Ardemgo Episcopo fiorentino et fratre Rugerio

de ordine Fratrum Predicatorum.

Factum fuit hoc preceptum in palatio filiorum Abbatis, anno

Domini Millesimo ducentesimo quadragesimo quarto, indictione

secunda, tertio idus Martii, presentibus testibus domino Baldovi-

necto del Cece et Arnoldo eius filio et lacobo, qui Ciapecta vo-

catur, bannitore comunis.

Ego Petrus condam Mellioris imperiali auctoritate index et

notarius hec omnia de precepto diete Potestatis scripsi et pu-

blicavi idemque subscripsi.

Pubblicato dal Santini p, 486. Cod. barb. p. 14J.

Doc. N. 7.

S. Maria Novella — 12 Ottobre 1245.

Domina Guida uxor olim Bizochi jurata dixit quod mater

Pacis de Barone et Pax filius eius interfiierunt consolationi do-

mine Milingrane uxoris Clari Malefollie.

Magister Guilielmus, qui facit bursas, iuratus dixit quod vidit

duos hereticos consolatos in domo Pacis de Barone.

Bene presbiter olim Cedde iuratus dixit quod jam sunt septem

anni quod ipse vidit in domo Pacis Baronis Burnettum episcopum

hereticorum.

Masus filius olim Ugolini iuratus dixit quod a septem annis

citra ipse vidit in domo Pacis de Barone Gerardum, qui fiiit

conbuxtus, et tunc ibi erat Baro frater Pacis et vidit ipsum et

mulieres, que ibi erant, adorare ipsum hereticum.

Domina Peregrina que rediit iurata dixit quod iam sunt quin-

decim anni, quod consolationem recepit apud Mantuam, et quod

iam est annus quod ipsa fiiit in domo Pacis de Barone Florentie,

et tunc ibi invenit Benvenutam et Mellioratam hereticas, que

conbuxte fuerunt, et quandoque in ea vidit Restaurum hereticum

consolatum de Prato.

Rosa Mulier iurata dixit, quod anno preterito ipsa vidit in

domo Pacis de Barone sex hereticos horantes et mensam pa-

ratam coram eis.

 

 

— 41 —

Amata, que rediit, iurata dixit quod iam sunt quinque anni

quod consolationem recepii a Torsello episcopo hereticorum in

domo Clari Mainetti, et dixit quod postea fuit in domo Pacis de

Barone, et ibi invenit Torsellum episcopum hereticorum et Me-

liorem hereticum consolatum, et eos in eadem domo adoravit.

Ego Guido Bellocci iudex ordinarius et notarius publicus et

nunc notarius fidei constitutus dieta supradictorum, prout in actis

inquisitionum domini Ardenghi episcopi fiorentini et fratris Ro-

gerii Apostolice sedis legatis scripsit, hic publicavi Millesimo du-

centesimo quadragesimo quinto die lovis duodecimo mensis Octo-

bris Indictione quarta, presentibus testibus rogatis fratre Donato

et Philippo de ordine Predicatorum (').

Doc. N. 8.

S. Maria Novella — la Ottobre 1245.

Matheus filius Buoni, qui iuravit die Martis xnj intrante De-

cembris (1244) suo dixit iuramento, quod vidit Johannem here-

ticum condepnatum ea die, qua exivit de carcere, intrare in domum

maiorem Pacis de Barone altam et muratam, que est iuxta domum

fil. Marchi Bizochi et Guidinghi medici.

Perinus filius Gianni, qui suo iuramento dixit idem.

Anghensa uxor dicti Perini iurando dixit idem quod Matheus

supradictus.

Gemma uxor Pele, que iuravit vnj kal. Decenbris ( 1244) dixit

idem quod Matheus predictus.

Baro frater Pacis dixit suo iuramento, quod Johannes here-

ticus, qui fugit de turri fuit in domo sua ea die in qua fugit.

Item dixit quod credit matrem suam esse consolatam here-

ticam a duobus annis citra et quod in proximo preterito mense

octobris vidit eam in domo sua.

Pa.x frater Baronis predicti dixit suo iuramento quod credit

matrem suam esse consolatam hereticam, et quod a mense De-

cembris proxime preterito non fuit in domo propria.

Fioretta, que rediit, iurata dixit, quod consolationem recepii

in domo Pacis del Barone et tunc ibi erat Benvenuta, que con-

buxta fuit. Et dixit quod ab anno citra ipsa stetit in domo Pacis

 

 

(• I Questa, come già dicemmo, è la data della copia autentica non del co-

stituto.

 

 

— 42 —

<Ie Barone ad docendam vitam hereticorum Albensem una cum

quadam sua sotia, que conbuxta fuit Bene, per quattuor menses ;

et tunc vidit dictum Baronem facere reverentiam hereticis, qui

veniebant in ipsa domo, licet non recordetur nominum hereticorum

et vidit ibi matrem ipsorum, que consolata erat.

Albense predicta, que rediit, dixit suo iuramento quod ante

consolationem suam ipsa stetit in domo alta Pacis del Barone

murata, et in alia que est ex parte Porte sancte Marie per

quattuor menses ad recipienda dogmata hereticorom a Meliorata,

que conbuxta fuit Prati, et Fioretta predicta que rediit, et tunc ibi

vidit Torsellum Episcopum hereticorum, lohannem et Meliorem,

qui conbuxtus fuit, et vidit Baronem facientes eis reverentiam.

Comtelda, que rediit, iurata dixit quod fuit in domo predicta

Pacis del Barone post consolationem suam per duas vices, et

dixit quod in prima vice vidit in ea Torsellum episcopum here-

ticorum et lohannem, et dixit quod non est annus, quod hec

fuerunt.

Contessa uxor olim Bonfillioli iur. dixit, quod sunt vnj anri

quod consolationem recepit Prati a Burnetto tunc episcopo here-

ticorum et quod iam sunt tres anni, quod ipsa vidit Florettam

predictam, quae rediit, et Benvenutam predictam, que conbusta

fuit, hereticas consolatas in domo Pacis del Barone.

Uguccione Cavalcantis iur. dixit, quod iam sunt quinque anni

quod ipse ivit ad audiendos hereticos predicare, qui erant in

domo Pacis del Barone, videlicet Torsellum et sotios et alios

nominum quorum non recordatur, et ibi eos vidit et predicare

audivit. Et dixit quod Barone frater Pacis interfuit, quando Ja-

cobus de Acquapendente Episcopus hereticorum et Burnettus et

duo alii heretici, nominum quorum non recordatur, consolationem

dederunt Canti Linguati.

Amata, quae rediit, iurata dixit, quod ipsa fuit in domo Pacis

del Barone et ibi vidit Torsellum episcopum hereticorum et Me-

liorem hereticum consolatum.

Clarus filius Boncambij iur. dixit quod in domo Pacis del

Barone vidit Burnettum, Torsellum episcopum et Latinum here-

ticos et quosdam alios, quos non cognovit, comedentes; et dixit

quod bene per sex vices fuit in domo predictorum Pacis et Ba-

ronis, et in ea vidit hereticos consolatos.

Domina Biatrix iur. dixit quod Pax del Barone et Barone

frater eius duxerunt Torsellum episcopum hereticorum in domum

iìliorum Monsiri ad consolandum Renaldum fi!. Monsiri.

 

 

— 43 —

Scotta, que rediit, iur. dixit quod sunt vij anni quod conso-

lata fuit a Gerardo et Benintende hereticis consolatis, et quod

ipsa fuit in domo Pacis del Barone maiori et alta murata, que

•est iuxta domum filii Marchi del Bizoco, et vidit in ea Benve-

nutam et Melliorem, hereticas consolatas, et dixit quod vidit ibi

Baronem fratrem Pacis. Item dixit quod aliquando fuit in domo

Pacis de Barone apud sanctum Gagium, et in ea stetit per duas

vices.

Ego Guido Bellotti iudex ordinarius et notarius publicus im-

periali auctoritate dieta supradictorum, prout in actis inquisitio-

num domini Ardinghi episcopi fiorentini et fratris Rogerij apo-

stolice sedis legati scriptis existente notario fidei, hic publicavi, et

dictas abrasuras superius factas propria manu feci Millesimo ducen-

tesimo quadragesimo quinto die lovis duodecimo mensis Ottobris

Indictione quarta, presentibus testibus rogatis fratre Donato et

fratre Phylippo de ordine predicatorum (').

Doc. N. 9.

S. Maria Novella — 30 Novembre i2-j5.

In die beati Andree presentibus testibus fratre lacobo et fratre

Gherardo. Conmitissa uxor olim Bonfilioli de populo sancte Marie

supra portam interrogata dixit, quod iam sunt quattuor anni, quod

fuit consolata, sicut credit, in quadam domo Prati in loco qui di-

citur Cantone et de manu Gherardi recepit consolationem et Ben-

venuti. Interrogata, unde exivit, quando ivit Pratum prò conso-

latione respondit de domo Ciari Mainetti, ubi dicit se stetisse per

tres menses, facientem vitam Paterinorum. Interrogata, si vidit

ibi aliquas Paterinas, respondit et dicit quod vidit duas et unam

consolatam. Interrogata dicit quod vidit uxorem dicti Clari fa-

cientem eis reverentiam, et dicit quod vidit fìlium dicti Clari

maiorem facientem eis reverentiam. Interrogata si credit Clarum

■esse credentem Paterinorum respondit, quod sic. Interrogata si

fecit in domo dicti Clari postquam fuit consolata, respondit et dicit

c[uod sic... {svanito e d' incerta lettura). Interrogata si fuit in alia

•domo, respondit quod sic in domo domini Renaldi del Pulce, ubi

dicit se vidisse duos consolatos et unam mulierem, que dicebatur

 

 

(^) Sulla data si debbono fare le stesse osservazioni del documento precedente.

 

 

— 44 —

esse de Senis, et fecit eis reverentiam in dieta domo, et comedit

cum eis. Interrogata si sciverint domine domus, quando ipsa fuit

ibi cum hereticis, dixit quod sic. Interrogata si Renaldus del Pulce

et eius familia sunt credentes, dicit quod sic. Interrogata, si aliqua

vice fuit in aliqua domo huius civitatis respondit quod in domo

Thomasi, que dextructa est, et in domo que est in civitate dicti

Thomasi, et dicit quod stetit in domo diete Alfanie cum ipsa

plusquam per sex menses. Item dicit, quod vidit dictam dominam

Alfaniam facientem eis reverentiam. Item dicit, quod petivit he-

reticos in quadam sua infirmitate.

Item insuper Ruchellus forficiarius filius olim Gherardi rogata

et precibus diete Contesse promisit fratri Rogerio dictam Do-

minam Contessam representare ei, quando ipse voluerit, ad penam

Librarum ij, testibus ad hec representatis Benasai fil. Guarneri

et Benzi filio Ciraldi Porte sancti Pancratij.

Pubbl. dal Lami Lez. di Antichità Toscane e. JJ4 e cod. barber. p. 144.

Doc. N. 10.

S. Maria Novella — 1245.

Fertur publice Casscie et in eius Curia, quod Guido Caccia-

contis, qui est et dudum fuit credens et receptator Paterinorum,

recepii lohannem et Ristorum paterenos et Torsellum episcopum

eorum et tres alios paterenos in domum suam positam in parro-

chia plebis Casscie, sequenti vel tertio die postquam ipsi lohannes

et Ristorus exiverunt de turri Marinette, et eosdem retinuit in

dieta domo per sex dies, in qua domo predicabant dicto Guidoni

et eius familie. Orta fama de predictis dominus Philippus de

Cuona Potestas Casscie misit ad dictum Guidonem Mattovarium

et Boninsigninum nuncios suos, ut preciperent eidem Guidoni ut in-

contanenti expelieret paterenos omnes, quos habebat in domo sua^

qui iuxta suum mandatum predicta sic preceperunt. Qui Guido

propter preceptum incontanenti duxit eos latenter in villam de

Pontefonio, curie dicti Castri de Casscia in domum Guillelmi

Vernacci, et steterunt in eadem duobus diebus, et postea reduxit

eos in domum Ecclesie de Pontefonio, et steterunt in quadam

camera domus ipsius Ecclesie latenter duobus vel tribus diebus,

presente presbitero Buono rectore ipsius ecclesie, sciente Romeo

clerico diete ecclesie et aliis scholaribus stantibus in eadem et

 

 

— 45 -

Recabene qui est de dicto loco et post hec remisit eos in terra

de Paczis.

Cod. barb. p. 1J4.

Doc. N. 11.

S. Maria Novella — 1245-

Domina Adalina uxor domini Albizi Tribaldi dixit iuramento

suo interrogata quod tempore sue juventutis, et cum erat in Ca-

pallo in domo patris, vidit Pauperes de Loduno, et dixit quod au-

divit matrem suam dicentem quod querebat salvationem. Item

dixit quod sunt quindecim anni, quod ipsa primo vidit hereticos

consolatos in domo viri sui apud Ripolem, videlicet Aspectam et

sociam. Item dixit quod postea Bellafemina soror Ostrucci mul-

totiens conmendavit ei vitam hereticorum. Itemque dixit quod

postea vidit in ipsa domo Bonaiutum hereticum consolatum de

Aretio, et ipsum adoravit et dedit ei denarios decem et ceto, et

postea ipsum vidit Burnectum episcopum et socium in ipsa domo,

et in ea stetit per unum diem, et semel ibi commedit, et filia eius

fecit in domo sua reverentiam hereticis et dixit quod Divitia, que

rediit, dicebat filie sue et sibi facere reverentiam. Item dixit

quod Divitia multotiens induxit eam ad credentiam hereticorum et

commendavit ei vitam ipsorum et ipsam et Torsellum, Altomannum,

Citadinum, lohannem Meliorem, et alios multos receptavit in

domo sua, que vendita est Boldroni, et ipsos multotiens adoravit.

Item dixit quod semel vidit in ipsa sua domo duodecim hereticos

consolatos, licet non recordetur de nominibus, et quod tunc con-

solationem et manum impositionem fecerunt domine Mingarde,

que rediit, et dixit quod tunc ibi fuerunt domina Tedora et uxor

Albertini Malecreste, et dixit quod ipsa domina Tedora fecit ex-

pensas factas in consolatione. Item dixit quod ea die domina

Avegnente filia Nerli venit in ipsa sua domo ad ipsam dominam

Tedoram et alios hereticos qui ibi erant. Item dixit quod vidit

Anselmum venientem in domo sua ad videndos hereticos, qui ibi

erant. Item dixit quod Divitia, que rediit, ducebat ibi credentes

contraria hereticorum, et ad eos ducebat credentes. Item dixit

quod vidit dominam Bertilliam uxorem olim Gargoze in domo viri

sui stantem et audientem predicationem Citadini et socii, et dixit

quod semel misit hereticos in domo sua prò Divitia unam an-

quillam.

 

 

-46-

Item dixit quod alia vice vidit in dieta domo hereticos facere

consolationem, licet non recordetur de nominibus, et predicta fue-

runt a decem annis citra. Item dixit quod ipsa fecit venire here-

ticos ad consolandum virum eius in quadam infìrmitate, qua ipse

vir eius patiebatur, videlicet Burnectum et socium, licet non re-

cepisset manuum impositionem. Item dixit quod est annus quod

ipsa ivit in domo in qua manet, et ab ipso tempore citra fuerunt

heretici in ipsa domo videlicet Torsellum {sic) et socium et lacobum

de Aretio et socium Marcum de Montefrascone et socium et Do-

viziam et Gemmam, et ipsos licet non omnes simul in ipsa domo

retinuit, et coramederunt et dormierunt, et ipsa et filia eius eis re-

verentiam fecerunt, Item dixit quod ipsa et uxor Grififonis Pedre

iverunt in domum Guidonis Baroncini ad videndum hereticos et

tunc ibi invenerunt Citadinum et socium et eis reverentiam fe-

cerunt, et tunc ibi vidit Guidonem, et ipse Guido tunc tremuit et

dixit quare venistis, et vidit ibi Petrum et dixit quod sunt tres

anni quod hec fuerunt. Item dixit quod ipsa vidit et adoravit in

domo Griffonis Pelegrinam, que rediit et sociam et dixit quod

sunt tres anni quod hec fuerunt et dixit quod cum ea fuit uxor

domini Albertini.

Item dixit quod ante quam exiret de domo vendita Boldroni

vidit dominam Tedoram cum quadam sanense, que claudebat

oculos ad modum hominis dormientis, et veritatem eius exaltabat

in altum, et incipiebat loqui et predicabat; et dixit quod ipsa di-

cebat quod Torsellus, Marcus et alii erant et stabant ad pedes

maiestatis habentes vestes ex lapidibus preciosis ornatas.

Doc. N. 12.

S. Maria Novella — ia45.

A (ine colonne — Colonna prima.

Probatur contra Pacem et per Maffeum filium Buoni, qui dicit

quod vidit ipsum lohannem ea die qua exivit de carcere intrare

domum eius maiorem.

Item per Perinum f. Guari, qui dixit quod vidit lohannem he-

reticum intrantem domum Pacis de Barone maiorem.

Item per Angnesam uxorem suam, dicti Perini, eodem modo.

Item per Gemmam uxorem Sele eodem modo.

 

 

- 47 -

Item per Rosam de Hostina, que dixit quod anno preterito

ipsa vidit in domo Pacis sex hereticos horantes et niensam pa-

ratam coram eis.

Item per Scottam quod ipsa stetit in domo maiori Pacis post-

quam consolata fuit.

Item per Contessam consolatam, que rediit, que dixit quod

ipsa in domo Pacis fuit ad videndas Paterinas, et quod in ipsa

vidit et adoravit duas hereticas consolatas.

Item per Fierettam hereticam, que rediit, et dixit quod con-

solationem recepit in domo Pacis.

Item per Uguiccionem Cavalcantis, qui dixit quod ipse bis vidit

et adoravit hereticos in domo Pacis.

Item per Pelegrinam, que rediit, que dixit quod fuit in domo

Pacis del Barone antequam redirent, cum esset consolata.

Item per Albesem, quod ipsa stetit et recepit doctrinam here-

ticorum in domibus Pacis, et quod vidit in ipsa domo hereticos

consolatos quandoque in maiori et quandoque in domo illius iuxta

portam sancte Marie et plus (?) in ea stetit.

Colonna seconda.

Item per presbiterum Bene, qui dixit quod vidit in domo Ba-

ronis et fratris hereticos.

Item per Conteldam, quod ipsa post consolationem ab ea re-

ceptam fuit in domo Pacis, et in ea vidit Torsellum et alios vi-

delicet altam domum.

Item Clarum filium Boncambii MalefoUie, qui dixit quod vidit

hereticos in domo Pacis dicti.

Item per Masum, qui dixit quod vidit et adoravit hereticos in

dieta domo, et vidit Baronem et mulieres domus adorare hereticos.

Item per Amicam, que rediit, que dixit quod vidit in ipsa

domo Torsellum et Meliorem hereticos.

Item per dominam Biatricem, que iurata dixit quod vidit Pacem

de Barone et Baronem fratrem eius ducentes Torsellum episcopum

hereticorum in domum filli Monsiri, qui Torsellus cuidam infirmo,

qui vocabatur Rainaldus, manus imposuit ut crederet.

Item Barone predictus confessus est quod eo die quo lohannes

hereticus fugit de carcere fuit in domo sua.

Item suo iuramento dixit quod vidit matrem esse consolatam

hereticam, et quod in proximo preterito mense octobris vidit eam

 

 

-48-

in domo sua, et dixit quod credit eam esse consolatam a duabus

annis citra.

Item Pax iuratus dixit quod credit matrem suam esse conso-

latam, et quod a mense decembri proximo preterito ipsa non fuit

in domo sua.

Cod. barb.

Doc* N. 13.

S. Maria Novella — 26 aprile 1245.

Millesimo ducentesimo quadragesimo quinto die Mercurij quinto

exeunte Aprilis, Indictione tertia. Actum Florentie prope Ec-

clesiam sancte Marie Novelle, presentibus testibus fratre Niccolao

subpriore fratrum Predicatorum, fratre Aldebrandino et fratre

Romeo eiusdem ordinis.

Domina Lamandina, uxor Renaldi de Pulce, iuravit mandata

domini Ardenghi miseratione divina Florent. Episcopi et fratris

Rogerij summi Pontifìcis Inquisitoris hereticorum in Tuscia con-

stituti de facto et super facto hereticorum et heresis. Que dixit

quod iam sunt duodecim anni quod notitiam habuit hereticorum

et hereticarum licet nullam habuisset fidem dictis eorum.

Item dixit quod primo vidit hereticos in domo cognati sui

Pulcis, videlicet lacobum de Aquapendente et Gerardum, qui

conbuxtus fuit apud Podium Bonizi, licet tunc non cognovisset

eos, et sunt duodecim anni quod hec fuerunt; et dixit quod semper

quando veniebant, ad dominam Margeritam cognatam eius venie-

bant, et dixit quod tunc dominus Ranaldus vir eius predicta igno-

rabat.

Item dixit quod sunt duo anni quod domina Margherita con-

solata, uxor Pulcis, venit in domo viri sui, et ab eo tempore citra

ipsa vidit in domo viri sui hereticos et hereticas consolatos, vi-

delicet Torsellum episcopum, Latinum, Altomannum, Cittadinum

Melliorem et Albanum et alios, de quibus non recordatur, et Al-

bensem, lacobam, Mariam de Borgo, Bonam, Amatam et Scottam

et alias plures consolatas, licet non recordetur de nominibus il-

lorum, et dixit quod ab ipso tempore citra vidit facere consola-

tionem bis in domo viri sui, licet non recordetur de nominibus

illorum, qui consolationem receperunt.

Item dixit quod vidit Gerardum consolatum et socium eius in

domo de Septimo et alios, licet non recordetur de nominibus, nisi

 

 

- 49 -

de Bellona et Aspetta consolatis, et dixit quod semper veniebant

ad dominam Tedoram.

Item dixit quod bis conmedit cum domina Tedora et aliis, et

quod frequenter adoravit eos, videlicet Torsellum et alios here-

ticos consolatos.

Item dixit quod vidit dominam Aldobrandescam uxorem Kianni,

dominam Scottam uxorem Firenzin, dominam Conteldam uxorem

Guerrieri, et dominam Adalinam uxorem Albizi Tribaldi, et do-

minam Maxiliam venientes ad videndas hereticas consolatas in

domo viri sui, et a duobus annis citra, licet non omnes simul.

Item dixit ex auditu, quod domina Ghisola uxor olim Alde-

brandini, Diana, Avengnente et Sophia, sorores filie olim Nerli,

fuerunt in domo viri sui ad videndam dominam Margheritam con-

solatam sororem earum.

Item eodem die. Actum in coro sancte Reparate presentibus

testibus fratre Alixandro priore fratrum Predicatorum de Flo-

rentia, fratre Aldobrandino et fratre Romeo eiusdem ordinis.

Dominus Renaldus de Pulce juravit eodem modo et idem in

omnibus et per omnia ut eius uxor domina Lamandina. Qui dixit

suo iuramento quod iam sunt duodecim anni, quod ipse habuit

notitiam hereticorum, qui veniebant in domo fratris sui ad con-

gnatam eius dominam Tedoram in occasione ipsius domine Te-

dore, et dixit quod vita eorum placebat sibi, et eos bonos ho-

mines tenebat, et audivit predicationem eorum, et mittebat eis, cum

essent in domo propria, pisces, panem et vinum et res con-

mestibiles.

Item dixit quod vidit in domo sua Torsellum, Gerardum, qui

conbuxtus fuit, et alios plures, quorum nomina ingnorat, et dominam

Tedoram et sociam eius; et dixit quod vidit Pacem de Barone,

Clarum Mainetti esse credentes hereticorum, et dixit interrogatus

quod non habet nec habuit aliquid a Torsello vel ab aliquo he-

retico vel ab alio aliquo prò eis, dixit tamen quod dominus Gual-

freduccius ante consolationem deposuit, prout credit, in domo sua

certam pecuniae quantitatem et ipsam rehabuit.

Probatur per dieta

Biatricis filie olim Rugieri Sitii \ que consolate fuerunt et ad fi-

Albensis, que fuit de Senis et , dem redierunt, centra dominum

Contelde Renaldum, quod ipse receperunt

consolationem in domo ipsius Ranaldi a Torsello episcopo et quod

steterunt in ipsa domo.

Item probatur centra ipsum per dominas nobiles et alias mu-

Tocco. j

 

 

_ 50 —

lieres fide dingnas, quod viderunt in ipsa domo Torsellum et alios

consolatos plures facere manuum impositionem.

Itetn probatur contra ipsum per alias mulieres, que redierunt

ad fidem et que fuerunt credentes, et per famulam quamdam

ipsius domus quod viderunt plures hereticos in ipsa domo.

Cod. barb.

Doc. N. 14.

S. Maria Novella — 6 giugno 1245.

Gherardus filius olim Rainerii Cipriani dixit suo juramento quod

iam sunt quindecim anni quod fuit credens hereticorum et dixit

quod tempore vite sui patris vidit hereticos in domo quondam

sui patris de Mugnone multotiens, videlicet Marchiianum et So-

cium et alios, de nominibus quorum non recordatur, et dixit quod

sunt decem et octo anni quod pater eius obiit. Item dixit quod

in domo sua de Florentia similiter tempore vite patris sui vidit

predictum hereticum et alios, et post mortem suam ipse retinuit

hereticos in domo sua de Florentia, videlicet Gerardum, qui conbux-

tus fuit, et socium, licet non recordetur de nominibus, et dixit post

quod nescit ubi pater eius sepultus fuit. Item dixit quod ipse ivit

cum Herrigo filio Uguiccionis Cavalcantis ad domum Clari Mainetti

ad videndum Bonavolliam infirmum, qui consolationem recipere

volebat, et dixit quod tunc vidit ibi ipsum Bonavoliam et quatuor

consolatos. Item dixit quod ipse et Zoccus filius Marchi iverunt ad

domum Diotaiuti ad videndum hereticos, que destructa fuit, vi-

delicet lohannem et Restaurum, qui exiverunt de carceribus Co-

munis Florentie, et iam sunt duo anni et plus quod hec fuerunt.

Et dixit quod tunc ipse et Zotus adoraverunt eos. Item dixit quod

veritatem ingnoravit de collecta facta prò hereticis, dixit tantum

quod ipse multotiens ivit cum Zoto per civitatem, et credit quod

ipse propter collectam faciendam ibat. Item dixit quod in domo

sua de Florentia ipse vidit Meliorem et Difendim, qui conbusti

fuerunt, et Boncontem de Monte Frascone et socium eius et quando

ibi stabant per unam vel duas dies et commedebant ibi, et eis re-

verentiam faciebat, et bis interrogationibus et examinationibusin-

terfuerunt frater Rogerius et alij frates.

Locteringìus Gualderami die sabati vj intrante Maio dixit suo iu-

ramento, quod sunt viginti anni et plus, quod fuit credens bere-

 

 

— 51 —

ticorum, et ab eo tempore citra receptavit eos in domo sua usque

ad tempus absumptionis crucis, quam habet, et fuerunt tres anni

vel circa quod eani accepit. Item dixit quod receptavit Burnet-

tum et socium Altomannum et socium, sed non a tribus annis circa

et ante ad susceptionem crucis, et in ea commedit Altomannus

et socius videlicet Bonconte, et cum eis commedit et dixit quod

reverentiam fecit dicto Burnetto. Item dixit quod post absump-

tionem crucis in domosua invenit lacobam et sociam, que rediit.

Item dixit quod ante absumtionem crucis vidit in domo sua

Spettam et Scottam consolatas. Item dixit quod nihil habuit de

bonis hereticorum et quod nihil alicui hereticorum dedit. Item dixit

quod non vidit aliquem credentem venientem in domo sua occa-

sione heresis aut propter heresim. Item dixit interrogatus, quod

non docuit aliquem heresim aut vitam hereticorum. Item dixit

quod ante absumptionem crucis ipse vidit in domo, in qua Diotaiuti

medicus stabat in porta sancte Marie prope domum filiorum Ghe-

rardini, Burnettum hereticum et socium. Item dixit quod ante ab-

sumptionem crucis ipse videt Gherardum hereticum in quodam

culto apud Caregium disputantem de heresi cum Guilielmo notaro.

Item dixit quod in prima inquisitione deieravit propter timorem

pene. Item dixit quod ipse denuntiavit Diotaiuti medico, quando

soror eius erat in domo sua, quod ipsa ibi erat et ut iret ad eam.

Item dixit quod tempore mortis matris sue ipse erat in Lombardia

et dixit ex auditu, quod non habuit sepulturam ecclesie propter

heresim.

Domina lohanna uxor Locteringhi dixit suo iuramento quod

non fuit unquam credens hereticorum, nec aliquem vel aliquam

in sua domo retinuit nec receptavit, nec aliquem vel aliquas ado-

ravi!, nec in sua domo commederunt quod ipsa sciat, nec aliquid

de eorum bonis recepit, nec de suis eis dedit, nec in domo aliena

aliquem vidit.

Item postea rediit et dixit quod ipsa dejeraverat propter ti-

morem viri et dextructionem sue domus. Dixit quod iam sunt

vigintiquatuor anni quod ipsa fuit uxor Locteringhi et dixit quod

ab eo tempore citra ipsa vidit hereticos consolatos in domo viri

sui, quando semel quando bis in anno, et dixit quod Burnectus

episcopus fuit primus, et post ipsum vidit Altomannum et alios,

licer non recordetur nominum eorum, et dixit quod ipsa parabat

eis coquinam et dabat eis comestionem et adoravit eos et dixit

quod vidit virum suum commedere cum eis, et dixit quod a duobus

 

 

— 52 —

annis citra ipsa vidit in domo viri Aspectam hereticam consola-

tam et sociam per tres vices, et in ea stabant et commedabant per

diem ibidem commorantes.

Item quod ab anno ipsa circa vidit in ipsa domo lacobam,

que rediit, et in ea stetit per duos dies et unam noctem sciente

et vigente ipso Locteringo viro suo. Item dixit ex auditu quod

socera eius fuit consolata in sua ultima voluntate, et quod non

habuit sepulturam ecclesie. Item dixit quod vidit Guilelmum no-

tarium in domo sua loquentem cum hereticis presente Locteringo

et vidente viro suo. Item dixit quod Aspecta primo predicavit

eam de heresi.

Ego Catalanus domini Frederigi Imperatoris iudex ordinarius

et notarius predicta omnia, sicut in actìs fratris Rugierij Inquisi-

toris hereticorum scriptis per Guidonem Bellocioli notarium reperi,

hic ita fideliter exemplavi anno Domini Millesimo ducentesimo

quadragesimo quinto octavo Idus lunii Indictione tertia. Actum

Florentie presentibus et videntibus fratrp Alexandro et fratre Fi-

lippo et fratre Iacopo.

Cod. barb.

Doc. N. 15.

S. Maria Novella — 1 1 Agosto 1245.

In nomine Domini, Amen. Anno Domini Millesimo ducente-

simo quadragesimo quinto. Indictione tertia die undecimo intrante

Augusto. Cum ego frater Rogerius de ordine fratrum Predicato-

rum Inquisitor hereticorum, a Sede Apostolica in Tuscia deputatus

inquirere, apud Florentiam inveni Pacem de Barone et Baronem

fratres filios olim Baronis de heresi publice infamatos esse, centra

quos inquisitione diligenti facta inveni quod in domibus ipsorum

episcopi hereticorum Brunettus et Torsellus et alij quam plures

heretici sunt receptati, ubi iniqua conventicula celebrantes he-

reses pluries docuerunt, sicut patet per confessiones plurium fide

dignorum, et quod, Barone sciente, sicut ipse idem Baro confessus

est, lohannes condepnatus hereticus, quem credentes de carcere

communis per violentiam extraxerunt, in domo ipsorum murata

fuit receptus, sicut constat per attestationes plurium fide digno-

rum, et quod ipse Baro ordinavit hereticos in domo predicta,

sicut attestantur plures, quos ipse Baro ordinavit hereticos, qui

 

 

— 53 —

ab heresi ad fidem catholicam reddierunt, et quod Belliottam ma-

trem suam consolatam hereticani scientes eam hereticam longo tem-

pore tenuerunt; cum per Episcopum florentinum et per me in-

quisitorem fuisset pluries et publice preditum, quod omnis qui

sciret haereticos, deberet eos denuntiare, et super hoc fuisset per

Episcopum facta excomunicatio et per me inquisitorem lecta ca-

pitula in publica predicatione per dominum Gregorium fellicis me-

moriae centra hereticas- edita, ipsi nec Episcopo nec mihi aliquid

denuntiaverunt, quapropter vocatis eis et receptis ab eis super

predictis iuramento et cautionibus ydoneis, quod dicerent veritatem

tam de se quam de aiiis, et quod in omnibus Ecclesie obedirent

mandatis, in veni eos in pluribus deierasse; unde ne tanta facinora

remaneant impunita domum supradictam muratam et altam, que

iuxta domum domini Guidengi medici et iuxta domum filiorum

Marchi et iuxta vicum qui protendit ab Arno usque ad Burgum

sanctorum Apostolorum, de Consilio sapientum, omnipotentis Dei

nomine invocato, pronuntio et sententio penitus diruendam et

nullo tempore rehedificandam, ut ibi sit receptaculum sordium,

quod fuit latibulum perfidorum, ipsos autem prò periurio et prò

eo quod post iuramentum et obligationem prestitam cum Potestate

Fiorentina laboraverunt, quod ego, cum ad curiam properarem,

in favorem hereticorum et in iniuriam fidei et Ecclesie ponerer

in hanno, ut negotium inquisitionis impediretur, et quod predictus

Baro (etfrater) notarium fidei accusaverunt quod astabat mihi et

quod scribebat acta contra hereticos, et in multis aliis contumaces

et inobedientes steterunt, condepno eos in libris mille p^-sanorum,

quas deputo in negotiis fidei expendendis et pronuntio perpetuo eos

infames, et quod non possint ad aliqua publica officia et quod ab

omnibus legittimis actibus tamquam periuri et credentes, fautores

et receptatores hereticorum sint penitus alieni, et si in aliquo pre-

dicte sententie contradixerint, (seu) inobedientes extiterint et

cum Potestate vel cum aliqua alia persona contra aliquid attempta-

verint condemno insuper in aliis mille libris, quibus obligati sunt in

manibus dicti Episcopi fiorentini et meis recipientis prò Romana

Ecclesia, de quibus omnibus habemus ydoneas cautiones, et omnia

alia eorum bona tam mobilia quam immobilia, tamquam hereti-

corum indico publicanda, et ex nunc pronuntio publicata, salvis aliis

penis suo loco et tempore ab Ecclesia infligendis, reservata

mihi in omnibus plenarie potestate dispensandi cum eis in ali-

quibus, sicut eorum humili confessioni et correptioni iudicavero

convenire.

 

 

- 54 -

Actum Florentie in domo sante Marie Novelle presentibus

Gualtirotto, filio Pacis, et Forense filio Boni et Philippe filio Ma-

riscotti et Dono filio condam Petri et Philippo filio condam

Recevuti et Belotto filio Ciolari et Sinibaldo filio Cardinalis et

fi-atre Nicholao et fi-atre Ambroxio filio quondam Rayneri et fi-atre

Guidone Pysano et fratre Morando filio Boncompagni et fi-atre

Philippo et fratre Paganino et fi-atre Romeo et fi-atre Appolenari

et fi-atre Vito testibus de specialiter rogatis et vocatis.

Ego Michael condam Michaelis de Burgo novo filius et aucto-

ritate imperialis aulae notarius rogatus publice scripsi.

Dog. N. 16.

S. Maria Novella — 12 Agosto 1245.

In nomine Domini Amen. Anno eiusdem Millesimo ducente-

simo quadragesimo quinto, Indictione tertia, die duodecimo in-

trante Augusto. Notum sit omnibus presentes litteras inspecturis

quod Turixanus Angulini, nuntius Communis Florentiae et Ben-

venutus Compagni de Vltra Arno similiter nuntius communitatis

eiusdem, venerunt ad claustrum Fratrum Predicatorum missi a

Pace Pesamiola de Bergamo Potestate Florentie, ut dicebant

cum quibusdam aliis, gestantes secum insignia offitii, quod habe-

bant in signum credulitatis, ibique fratri Rogerio de ordine fi-atrum

Predicatorum hereticorum inquisitori a Sede Apostolica in Tuscia

deputato, preceperunt ex parte Potestatis iam diete quod sen-

tentiam, quam tulit contra Pacem et Baronem fratres et filios olim

Baronis, revocet et casset, et reddat eis pecuniam in qua condemp-

navit eos, quod dicebat, quod lata fuit ista sententia contra man-

datum Imperatoris, quod si non faceret, mandaverint eidem fi-atri

ex parte Potestatis predicte sub pena millarum marcarum quod

die lune sequentis se suo conspectu representet.

Facta sunt hec in capitulo fratrum Predicatorum, presentibus

fratre Nicholao subpriore et fratre Petro Veronense et fratre

Guidalotto et fratre Donato et fratre Guglielmo et pluribus aliis.

Ego Michael quondam Michaelis de Burgo novo iudex et

autoritate imperialis aulae notarius his omnibus interfui, et de

mandato dicti fratris, ut superius continetur, scripsi et pubblicavi.

Pubblicato dal San/ini pag. 4S7.

 

 

— 55 -

Doc. N. 17.

S. Maria Novella — la Agosto 1245.

In Dei nomine. Anno eiusdem Millesimo ducentesimo quadra-

gesimo quinto, indictione tertia, die tertio decimo intrante Au-

gusto. Notum sit omnibus presentes litteras inspecturis quod frater

Rogerius de ordine Fratrum Predicatorum a Sede Apostolica

hereticorum inquisitor in Tuscia deputatus citavit sero Pacem Pe-

samiolam Potestatem Florentie de heresi pnblice intamatum, tam-

quam fautorem hereticorum et publicum defensorem, prò eo quod

in negotio fidei prò hereticis defendendis contra mandatum apo-

stolicum se opponit mandando Capitaneis fidei et notariis, quos

dominus Papa sub protectione Romane Ecclesie recepit, quod

de officio suo se nullatenus intromittant, alioquin poneret eos in

banno, et eorum omnia bona publicaret et notarios perpetuo

privaret officio, secundum quod imperator Fredericus suis litteris

hoc precepit. Item quod unum (ex) eis scilicet Gerardum posuit in

banno centum librarum et notarium similiter in centum libris con-

depnavit, et quod sibi precepit quod sententiam latam contra

Pacem de Barone et Baronem fratres filios olim Baronis revocet

et casset, quod dicebat eam latam contra mandatum Imperatoris,

de quo mandato ego idem notarius de mandato dicti fratris pu-

blicum condidi instrumentum, quia presens eram in capitulo Fra-

trum Predicatorum cum nuntii Potestatis predictum faceret pre-

ceptum. Unde prò eis et multis aliis, que hoc anno contra

fidem in favorem hereticorum temere attemptavit, citat eum mo-

nitione premissa quod hodie per totam diem per se vel per pro-

curatorem compareat coram eo, alioquin contra eum, tanquam

contra contumacem fautorem hereticorum et publicum defenssorem

procedet, secundum quod vidcrit expedire et dominus Papa

mandat.

Actum in platea beate Marie Novelle, presentibus fratre Ni-

cholao subpriore et fratre Petro Veronensi et fratre Morando

et frate Guidone et fratre lacobo et domino Guidalotto vulgo

delorcho et domino Amizo de Vatore et infinita populi mul-

titudine.

Ego Michael quondam Michelis de Burgo novo iudex et

auctoritate imperialis notarius hiis omnibus interfui et de mandato

dicti fratris, ut superius continetur, scripsi et publicavi,

Pubbl. dal Lami Lez. di Antichità Toscane p. j-jj e dal Santini p. 48J.

 

 

-56-

Doc. N. 18.

S. Maria Novella — 24 Agosto 1245.

In Dei nomine Amen, Anno Domini Millesimo ducentesimo

quadragesimo quinto, Indictione tertia die octavO exeunte Au-

gusto. Cum nos Ardingus miseratione divina Florentie Episcopus

et frater Rogerius de ordine Fratrum Predicatorum, hereticorum

Inquisitor a Sede Apostolica in Tuscia constitutus, inquireremus

apud Florentiam de hereticis, sicut decet officium pastorale, inve-

nimus Pacem et Baronem fratres filios olim Baronis de heresi

publice infamatos, contra quos inquisitione diligenter facta, inve-

nimus quod in domibus ipsorum episcopi hereticorum Burnettus

et Torsellus et alii quam plures heretici sunt receptati, ubi iniqua

conventicula celebrantes, hereses pluries docuerunt et manus im-

positionem fecerunt, sicut patet per confessionem plurium fide di-

gnorum; et quod Johannes hereticus condepnatus, quem credente"

per violentiam de carcere Communis extraxerunt, receptatus est

ibidem, sicut plurimi attestantur, quod idem Baro et Pax coram

nobis confessi sunt; et quod idem Baro adoravit hereticos, sicut

attestantur plures, qui ab heresi ad fidem catholicam sunt reversi ;

et quod duxerunt Torsellum hereticum et tunc episcopum hereti-

corum ad alium consolandum ; et quod Beliottam matrem suam con-

solatam hereticam, sicut idem confessi sunt, in domo proprio tenue-

runt contra excomunicationem nostram et episcopi suprascriptam,

quia per nos pluries est denuntiatum in populo et facta excomu-

nicatio, quod omnes qui scirent hereticos, deberent eos denun-

tiare, et lecta sunt capitula per dominum Papam Gregorium fe-

licis memorie contra hereticos edita, quod ipsi facere contempse-

runt, occultantes matrem et alios hereticos ne ad manus ecclesie

pervenirent. Quapropter vocatis eis et receptis super predictis

iuramento et cautionibus ydoneis quod de predictis dicerent veri-

tatem et super predictis in omnibus Ecclesie obedirent mandatis

sub pena mille librarum se quilibet oblicavit, et tandem invenimus

eos periuros, contumaces et addentes mala malis et scellera scelle-

ribus cumulantes, armata manu, implorato auxilio Potestatis Floren-

tie, fautoris hereticorum, vocatis exbannitis, pulsata campana Com-

munis, extenio vexillo, equis falleratis, cum balistis, sagittis et arcu

nobis se publice opposuerunt pugnando contra nos et sotietatem

fidei, quam dominus Papa suo privilegio confirmavit, et sub prò-

tectione Romane Ecclesie recepit; et quod violaverunt cimiterium

 

 

— 57 -

maioris ecclesie, vulnerando et occidendo fideles, intrando eccle-

siam cum armis, fugando, spoliando et vulnerando eos, qui vocati a

nobis ad predicationem venerant audituri que centra Potestatem

dicenda erant, qui se centra mandatum apestelicum pluries prò

hereticis se epposuit; de quibus pene tota civitas attestatur et

cicatrices fidelium vulneratorum hec idem indelebiliter attestantur,

quorum sanguis effusus ab inimicis neminis christiani cum san-

guine Abel vindictam expescit. Unde ne tanta facinera remaneant

impunita et ne sanguis in circuitu lerusalem sicut aqua effusus

de nostris manibus requiratur, predictes Pacem et Baronem fratres

tanquam fautores, receptateres et hereticerum publices defenseres.

Dei emnipetentis nomine invocato, secundum quod iura decernunt,

iudicamus perpetuo infames et penis talibus personis a sanctis ca-

nonibus infligendis addicimus puniendos, domus eorum, que fue-

runt latibula perfidorum pronuntiantes funditus diruendas, bona

ejrum omnia pronuntiantes et dicentes omnia confiscanda, penam

autem pecunniarum, qua obligati sunt nobis Ecclesie reservantes.

Volentes autem in mansuetudine perficere opera nostra, revo-

cantes profugos, promittimus misericordiam reversuris, dantes

eis inducias ultra merita, quod si hodie, depositis armis, humi-

lìantes se volentes redire ad gremium sancte matris Ecclesie,

abiurantes omnem heresim, misericordiam implorabunt, recipiemus

eos et promittimus cum eis misericorditer nos facturos secundum

quod eorum humiliationi et correptioni vidimus expedire.

Acta sunt hec in die beati Bartholomei in platea sancte Marie

Novelle ea die qua per Pacem et Baronem et Potestatem excom-

municatam in favorem hereticorum contra fideles est publice dimi-

catum corani multitudine fidelium armatorum, qui venerant contra

hereticos pugnaturi, ubi idem dominus Episcopus et frater Ro-

gerius mandaverunt omnibus notariis qui astabant quod de pre-

dictis conficerent publica instrumenta. Unde ego infrascriptus no-

tarius de mandato predictorum, ut superius continetur, scripsi et

in publicam formam redegi.

Testes ad hec frater Nicholaus supprior florentinus, frater

Petrus Veronensis, frater Laurentius florentinus, Abbas Sancti Mi-

niati et populi copiosa multitudo.

Ego Gherardus notarius filius quondam Rustici], predicta omnia

de mandato predictorum scripsi et in publicam formam redegi

ideoque subscripsi.

Pubb. dal Lami Lez. di Antichità Toscane e. jjj e più correttamente dal San-

tini p 4j8. Cod. barb. copia consimile.

 

 

-58

 

 

Doc. N. 19.

Spedali di Prato — i8 Marzo 1276.

In Dei Nomine Amen. Ego Bectinus condam Amadoris Boccini,

olim credens hereticorum et eorum herrorum, iuro ad sancta Dei

evangelia stare et obedire precise mandatis domini Pape Romani

Pontificis et domini lohannis sancti Niccolai in Carcere Tulliani

venerabilis cardinalis et domini Guidalostis Pistoriensis Episcopi :

nec non mandatis fratris lacob Inquisitoris in provincia Tuscie

per sedem appostolicam heretice pravitatis et fratris Guicciardini

coinquisitoris eius prò omni sententia excommunicationis, in quam

incurri occasione criminis hereseos, et prò eo quocumque modo

conmisi in ipso crimine vel circa ipsum crimen, sive credendo

herroribus hereticorum, sive ipsos receptando, seu quocumque

modo quomodo auxilium consilium vel favorem prestando vel co-

municando eisdem, et per gratiam lesu Christi ad fidem captho-

licam et Romanam vere et sine aliqua fictione conversus, abiuro

omnem heresim contra fidem captholicam se dirigentem, et abre-

nuntio omnibus erroribus hereticorum et maxime Maniceorum et

omnium aliorum hereticorum, quocumque nomine conseantur,

quodque illam fidem credo et perpetuo credam quam sacrosancta

Romana Ecclesia servat, tenet, docet, credit et precipit observari.

Atque in perpetuum non credam aliquam heresim, nec creduli-

tatem aliquam prò fide habebo, que sit contraria vel adversa

fìdei, quam Dominus Papa Romianus Pontifex et venerabiles cardi-

nales et alij Prelati Ecclesiarum et viri captholici servant et tenent,

qui sibi et Romanae Ecclesie sunt subiecti. Et quod prò posse de

cetera persequebor (sic) omne mheresim et hereticos credentes, fau-

tores et receptatores eorum. Nec eis umquam ullo tempore pre-

stabo auxilium, consilium vel favorem, nec ipsos aliquatenus re-

ceptabo aud eis reverentiam exhibebo. Nec interero predicationibus

eorum, nec in cibo nec in potu comunicabo eisdem. Et quod

quandocumque aliquem hereticum vel hereticam contingerit michi

loqui vel alias ipsum vel ipsam scivero esse in civitate, castro vel

loco, in quo tunc ego Bectinus iurans ero, quam citius poterò, re-

nunciabo Episcopo civitatis vel loci Ordinario, seu Inquisitoribus

vel Inquisitori heretice pravitatis tam nomen heretici vel heretice,

quam etiam locum et quidquid et ubi mecum fuerint collocuti.

Et bona fide procurabo ipsos capi, et Episcopo civitatis vel loci or-

 

 

— 59 —

dinario vel Inquisitoribus vel inquisitori fideliter assignari. Que

omnia et singula scripta et infrascripta Ego Bectinus vobis fratri

Jacob Inquisitori nomine et vice Romane Ecclesie, solempniter sti-

pulata firmiter actendere et inviolabiliter observare iureiururando

promitto. Et nullo tempore contra predicta vel infrascripta vel ali-

quod predictorum vel infrascriptorum facere devenire altqua occa-

sione vel exceptione. Et quod Deus obvertat, si inventus fuero re-

labi, expono me et obliga omni pene que debetur relapsis secundum

canonicas santiones. Et ego Bectinus ero fidelis et captolicus sicut

antea, ita me adiuvet Deus et ista Sancta Evangelia.

In Christi nomine Amen. Nos frater lacob de Pistorio de

ordine Fratrum Minorum Inquisitor predictus Universis Christi

fidelibus declaramus quod Bectinus predictus quondam Amadoris

olim credens hereticorum et eorum herrorum conparuit sponte

eoram nobis infra terminum gratie per nos misericorditer assi-

gnatum omnibus hereticis et credentibus hereticorum ad mandata

Ecclesie reddire volentibus. Conparens nobis coram fuit mani-

feste confessus quod ipse stetit credens hereticorum annis no-

vem, et quod multis vicibus et in pluribus locis et in diversLs

temporibus fecit adhorationem et reverentiam hereticis consolatis

dicendo: Benedicite boni etc. secundum hereticorum ritus abusum,

et quod interfuit ipsorum predicationibus et monitionibus, et quod

interfuit consolationi hereticorum, et quod recepit ab eis de ipsorum

rebus, et quod vidit alios homines facientes adhorationem et re-

verentiam hereticis consolatis; unde cum ad fidem sacrosancte Ro-

mane Ecclesie desideret reddire et in ea deinceps vivere secundum

quod divina virtus sibi induxerit, humiliter postulavi! ut nos, qui

vicem Pape (gerimus), reciperemus et absolveremus eumdem. Nos

vero iuxta puram et sanam nostram intentionem ab eodem Bectino

corporale recepimus iuramentum et actionem et proniissionera et

iurationem prout in sua abiuratione antedicta plenarie continetur,

propria abjurata omni heresi se adversum sacrosante Romane Ec-

clesie extollenti, et renuntiato eidem heresi per proprium iura-

mentum, ipsum Bectinum ab omni sententia excomunicationis, quam

predictorum occasione incurrerat, iuxta formam Ecclesie duximus

absolvendum, restituentes et reincorporantes eundem Ecclesiasticis

Sacramentis, et ad eum gravibus culpis nos misericorditer tempe-

rantes, eidem Bectino in penitentia et prò penitentia imponimus in-

frascripta, decernentes eum ea debere inviolabiliter observare : vide-

licet quod dicat qualibet die viginti Pater noster et totidem Ave

 

 

— 6o -

Maria hinc ad duos annos proximos, ieiunet quamlibet sextam fé-

riam in pane et aqua duobus annis, nisi fuerit infirmus vel in longa

itinere fuerit positus vadat qualibet die dominica et diebus solenp-

nibus ad audiendam Missam solepnia, nisi fuerit infirmus vel in

longo itinere positus, vadat qualibet die Dominica ad predicationem

Fratrum Minorum. Reservantes nobis nostrisque successoribus ple-

nariani polestatem addendi et minuendi penitentias predictas. Con-

tulimus insuper et sibi distriate precipimus ut omnia et singula,.

que se servaturum iuravit, studeat inviolabiliter observare. Ncque

absit per transgressionem ipsorum, sive ipsius sive cuiuscumque

actus alterius relapsi in heresi censeri possit aliquatenus vel pre-

sumi, cum relapsi huiusmodi secundum canonicas sanctiones se-

culari sint iudicio sine ulla audientia penitus relinquendi. Et

quando dictus Bectinus comparuit coram nobis infra dictum tempus

gratie, per nos misericorditer assignatum omnibus ad mandata

Ecclesie reddire volentibus, et omnia sua peccata, que in dicto

peccato heresis commisit, confessus fuit plenarie coram nobis sicut

nobis expresso verbo exposuit, propter que ipsum ad eos reddisse

credimus et in quantum videre possumus iudicamus, eidem Bectino

bona sua omnia mobilia et immobilia misericorditer relaxamus.

Reservantes nobis nostrisque successoribus plenariam potestatem

contra ipsum et bona sua procedendi et procedi faciendi, si inve-

nerimus in posterum ipsum Bectinum de omnibus suis peccatis^

que in dicto peccato commiserit, veritatem plenariam non dixisse

tam de se quam de aliis.

Lata et pronuntiata sunt hec omnia Prati per suprascriptum

Inquisitorem in loco fratrum Minorum in Curia suprascripta Inqui-

sitoris, presentibus fratre Uguccione de Luca, fratre Nicolucio de

Legnis (?), fratre Ghino de Secis, fratre Bonaventura de Murello et

ser Torello notario filio ser Guilielmi notarii quondam Acti testibus

ad haec omnia rogatis. Sub anno Domini Millesimo ducentesimo

septuagesimosesto die octavo decimo Martii Indictione quinta.

Ego Acconcius quondam Ricoveri iudex ordinarius atque no-

tarius prolationi huius sententie interfui et ea omnia de man-

dato dicti Inquisitoris tunc scriba et officialis dicti Inquisitoris

scripsi et publicavi.

 

 

— 6i —

Doc. N. 20.

Dono Coppi — ai Agosto laSa.

In Dei Nomine Amen. Ego frater Salomon de Luca ordinis

Minorum auctoritate Apostolica Inquisitor heretice pravitatis notum

facio universis Christi fidelibus quod domina lohanna uxor Mariti

de Cerreto et de populo S. Marie maioris non citata ad meam pre-

sentiam comparuit et iuravit de mera ventate dicenda, et de com-

parendo atque parendo et super hiis servandi solepni stipulatione

interveniente se sub certa pena pecuniaria obligavit. Deinde ipsius

domine lohanne continuit sub iuramento facta manifesta confessio

quod iam sunt anni viginti unum vel circa, ut credit de tempore,

ipsa fuit missa semel ad quandam domum positam in populo

Sancte Trinitatis de Florentia ad quosdam patarenos, ibidem

existentes, deferens panem ex parte cuiusdam domine eisdem

patarenis, attamen utrum tunc viderit duos patarenos non recor-

datur; erat enim tunc puella forte decem annorum, ita quod tan-

tam non habebat discretionem, quod ad eos instaret videndum.

Item eodem tempore missa fuit per quamdam puellam ad domum

quamdam positam non longe a Castro Altafrontis, et in eadem

domo tunc invenit Cittadinum patarinum consolatum, cuius pata-

reni doctrinam, quam exprimere nescit, audivit ibidem, et non tam

placuit sibi quam potius obstupuit audiens verba ipsius, que sibi

fuerunt terribilia visa. Item quod iam sunt anni decem et octo

vel circa, ut credit de tempore, ipsa vidit in quadam alia domo

posila in populo Santa Marie in Capidolio de Florentia duos pa-

tarenos consolatos, quibus patarenis ipsa ad inductionem cuiusdam

domine reverentiam fecit dicendo: boni christiani et cetera iuxta

heretici ritus abusum. Item quod iam sunt anni sexdecim vel circa,

ut credit de tempore, ipsa vidit in quadam alia domo duos pa-

tarenos consolatos, quos nominibus non cognovit, quibus pata-

renis ipsa reverentiam fecit ibidem secundum ritum predictum.

Item quod iam sunt anni xx vel circa ipsa vidit in quadam alia

domo posita in populo Sancte Marie maioris duas patarenas con-

solatas, quarum nomina non recolit. Item quod ipsa multototies

fuit inducta a duabus dominabus ad amorem et credulitatem pa-

tarenam et quod quodam tempore ipsa ad patarenam credulitatem

habuit aliqualem. Unde cum predicta lohanna redire desideret ad

ecclesiasticam unitatem, a qua deviando peccavit, et in ea vite

portionem exigere, quam sibi divina virtus indulxit, a me supplì-

 

 

— 62 —

citer postulavit ut sibi auctoritate apostolica absolutionis benefi-

cium impertirer, sueque saluti misericorditer providerem, sibi prò

premissis excessibus imponendo penitentiam salutarem. Ego vero

ipsius salutem desiderans, ilHus intuitu, qui vult omnes homines

salvos fieri, ab ea corporale iuramentum et abiurationem ad sa-

nam et puram intentionem meam in hac forma recepsi. Ego

lohanna uxor Mariti de Cerreto et de populo Sancte Marie

maioris de Florentia abiurando omnem heresim, quocumque no-

mine censeatur, et precipue heresim patarinorum, iuro stare precise

mandatis domini Martini pape quarti Romani Pontificis, que per se

vel per alios semel vel pluries mihi duxerit iniungendum, nec

non et mandatis fratris Salomonis de Luca ordinis minorum

auctoritate apostolica Inquisitoris heretice pravitatis per te vel

per alios mihi faciendis prò omni excomunicationis sententia quam

incurri ratione criminis heresis, et prò eo quod quocumque modo

conmisi in ipso crimine vel circa ipsum crimen sive credendo

hereticorum erroribus sive quomodolibet auxilium, consilium vel fa-

vorem prestando vel comunicando eisdem. Et quod quandocumque

auctoritate domini Pape seu tua fuero requisita, dicam omnimodam

veritatem nihil tacendo de me ipsa scienter, videlicet de omne

eo quod ego conmisi in crimine hereseos vel circa ipsum crimen de-

linquendo, similiter credendo, adorando vel communicando eis quo-

modolibet, vel auxilium, consilium vel favorem prestando, et quod

etiam de omnibus aliis omnem veritatem, quam in predictis et circa

predicta scivero seu credidero, et manifestabo et rìvelabo et nomi-

nabo utriusque secus hereticos credentes, receptatores et fautores

eorum, quos novi quorumque poterò reminisci. Quodque illam

fidem credo et perpetuo credam quam sacrosanta Romana ec-

clesia servat, tenet, credit, docet et precipit observare. Atque

in perpetuo non credam aliquam heresim nec credulitatem ali-

quam prò fide tenebo, que sit contraria vel ad versa fidei, quam

dominus Martinus papa predictus, venerabiles Cardinales et alii

ecclesiarum Prelati servant et tenent, qui sibi et Romane Ecclesie

sunt subiecti. Et quod prò posse meo de cetero persequar omnem

heresim et utriusque sexus hereticos credentes, receptatores et

fautores eorum nec eis ullo unquam tempore prestabo auxi-

lium, consilium vel favorem, nec ipsos aliquatenus receptabo vel

eis reverentiam exhibebo, nec predicationibus interero eorum-

dem, seu in cibo vel potu communicabo eisdem. Et quod quan-

doquidem deinceps aliquem hereticum vel hereticam contigerit

mihi loqui vel alias ipsum vel ipsam scivero seu firmiter ere-

 

 

-63 -

didero esse in civitate vel loco, in quo tunc ego lohanna mo-

rabor, quam cito poterò revelabo Episcopo civitatis vel loci Ordi-

nario seu Inquisitori vel Inquisitoribus heretice pravitatis tam

nomen heretici vel heretice quam etiam locum, ubi mecum sunt

collocati. Et bona fide procurabo ipsos capi et Episcopo civitatis

vel loci ordinario seu Inquisitori vel Inquisitoribus fideliter assi-

gnari. Sic Deus me adiuvet et hec sancta Dei evangelia. Huius-

modi itaque iuramento- prestito et recepto, et abiurata omni

heresi, quocumque nomine censeatur, prefate domine lohanne

ab omni excomunicationis sententia, quam propter premissos

eccessus incurrerat, iuxta formam Ecclesiae ex auctoritate premissa

qua fungor, beneficium absolutionis impendi. Et mecum delibera-

tione diligenti prehabita, rigorem iustitie miserìcorditer temperans

eidem prò pena et, penitentia ratione premissorum eccessuum im-

posui infrascripta, decernens ipsam ea debere inviolabiliter os-

servare, videlicet ut semel saltem in anno confessionem suorum

faciat peccatorum et, nisi de sui Consilio confessoris abstineat,

recipiat heucaristie sacramentum. Cotidie intersit integraliter Mìs-

sarum solemniis et singulis diebus dominicis et festis solemnioribus

predicationem graviter audiat verbi Dei. Preter ieunia ab Ec-

clesia indicta, una die singulis septimanis ieiunet toto tempore

vite sue, et singulas sextas ferias trium maiorum quadragesima-

rum proxime secuturum in pane tantum et acqua ieiunet. Et dicat

cotidie inter diem et noctem vigintiquinque Pater noster et totidem

Ave Maria. Reservata mihi meoque coinquisitori et nostris succes-

soribus ad hec addendi, minuendi et commutandi, prout de iure suo

poterit semel et pluries et expedire videbitur, libera et plenaria

arbitrii facultate. Consulo preterea et diete domine lohanne di-

stricte precipio, ut omnia et singula suprascripta, que se observatura

iuravit, et alia que sibi prò pena et penitentia duxi salubriter im-

ponenda, studeat inviolabiliter observare, ne, quod absit, per tran-

sgressionem ipsorum seu cuiusque actus alterius relapsa in heresim

censeri possit aliquatenus vel presumi, cum relapsi huiusmodi

iuxta canonicas sanctiones seculari sunt iudicio sine ulla penitus

audientia relinquendi.

In horum autem evidentius testimonium atque memoriam,

mando tibi Ugoni notario meo ut presentem seriem redigas in

publicum instrumentum.

Lecta, lata et pronuntiata sunt hec per predictum fratrem

Salomonem Inquisitorem in loco Fratrum Minorum de Florentia,

presente dieta nomina lohanna et me Ugone ipsius Inquisitoris

 

 

- 64 -

notarlo, nec non presentibus testibus fratre Bernardino de Luni-

sciana ordinis Minorum et magistro Bonaguido medico, domino

Locto de Gerardinis, domino Lapo Guidonis Rinuccii ludicis, Lapo

Rinuccini et Cione Moltobuoni de Florentia officialibus Inquisi-

tionis. Anno a Nativitate Domini Millesimo Ducentesimo Ottua-

gesimo secundo Decime Indictionis die Veneris Vigesimo primo

Augusti.

Ego Ugo lacobi Caleffi de Florentia iudex et notarius et tunc

predicti Inquisitoris scriba existens suprascriptam seriem ipsius

Inquisitoris mandato scripsi et in publicum instrumentum redegi.

Doc. N. 21.

Capitoli reg. XLIV, e. 14.

(Copia autentica).

3 Aprile 1283.

Exemplum quarundam licterarum papalium in hanc formam.

Martinus Episcopus servus servorum Dei. Dilectis filiis Inqui-

sitoribus pravitatis heretice in civitate ac diocesi fiorentina consti-

tutis salutem et apostolicam benedictionem. Tradite vobis virtutes

a Domino, que laudabilium fructus operum repromittunt, nobis

fìduciam afferunt, quod Inquisitionis officium, ad exterminium

pravitatis heretice, vobis ab apostolica sede commissum, ad lau-

dem divini nominis prosequamini diligenter. Verum ex parte di-

lectorum filiorum.. Potestatis consilii et comunis fiorentini, fuit

propositum coram nobis, quod ex eo inibi videtur generari scan-

dalum et posset gravius suscitari quod si quis a retro temporibus

invenitur hereticus extitisse, bona quondam ipsius, que suo cri-

mine non detecto nec centra ipsum aliqua inquisitione speciali

pendente, quocumque alienationis vel concessionis titulo forte di-

straxit, etiam si per plures manus interdum res sic alienata vel

concessa transiverit, a bone fidei possessoribus dicitis avocanda.

Quamvis autem a predecessoribus nostris Romanis Pontitìcibus

extiterit diffìnitum, quantum ad presentem articulum debere ser-

vari, quod observatur in lese crimine maiestatis, nec in hac parte

recedamus a vestigiis eorumdem, volumus tamen et per aposto-

lica vobis scripta mandamus, quatinus ad revocationem talium

bonorum in civitate ac diocesi fiorentina minime procedatis ad

presens, nisi forsan intervenisse constiterit fraudem vel malitiam

 

 

— 65 —

propter quam merito sit ad revocationem huiusmodi procederi-

dum, vel nisi alienator alienationìs huiusmodi tempore de pravi-

tate heretica infamatus fuerit publice vel suspectus. Datum apud

Montem frasconem x kal. Decembris, pontificatus nostri anno

secundo.

Que quidem lictere sigillate erant sigillo plumbeo corda pen-

denti, in quo quidem sigillo erant ex parte una Martinus pp. nij

et ex alia extant hee h'ctere S. Pa. S, Pe. cum quadam cruce in

medio inter scripturam sancti Pauli et sancti Petri.

Ego lacobinus Bonacursi notarius autenticum huius exempli

vidi et legi non abolitum, non vitiatum, nec in aliqua parte sui vi-

tiatum, et quidquid in eo scriptum reperi ita hic per ordinem fideliter

exemplando transcripsi, et, precipiente mihi domino lohanne priore

sancti Michalis Bertelde vicario ecclesie fiorentine vacantis et

eo suam auctoritatem interponente, in publicam formam redegi.

In Millesimo ducentesimo octuagesimo tertio, Inditione undecima

die tertio Aprilis, presentibus, videntibus, legentibus et ascultan-

tibus testibus Ioanne Maynetti, Gratia Arrigi Gratie, Gherardo

Orlandi de Glacceto et Simone Dulcis, omnibus notariis (').

Doc. N. 22.

Monte Comune — 128 {'\

Ego frater Bartholomeus Senensis ordinis Minorum auctoritate

Apostolica Inquisitor heretice pravitatis notum facio universis

Christi fidelibus, quod Lapus olim lohannis Perini populi sancti

Romuli de Florentia non citatus ad meam venit presentiam, et

iuravit de mera ventate dicenda, et de comparendo atque parendo

et super hiis servandis.solemni stipulatione interveniente se sub

certa pena pecuniaria obligavit; deinde ipsius Lapi manifesta conti.

 

 

(') Ha qualche rapporto questa bolla con la sentenza pronunziata contro gli

Uberti nello stesso anno 1283?

(') In uno strumento del 5 Novembre 1287 pubblicato dal Lami, p. 590: Frater

Bartholomeus Sener.sis Ordinis Minorum auctoritate apostolica inquisitor per se

suosque successores prò inquisitoris offizio ex causa venditionis dedit, cessit,

transtulit et mandavit Maso Domini Rogerini Minerbetti ementi et recipienti prò

Domino Neri de Piglis . . . . que et quas habet et competunt seu competere pcs-

sunt Domino inquisitori . . . contra bona et res olim Domini Rayneri del Bagno

de Florentia... occasione dotis librarum quingentarum honorum denariorum, quas

idem Dominus Rajnerus confessus fuit in dotem a Domina Ruvinosa coniuge

sua recepisse et habuisse.

Tocco. 5

 

 

— 66 —

nuit sub iuramento facta confessio, quod iam sunt anni xxvij vel

circa, ut credit de tempore, ipse existens puer forte viiij annorum

vidit pluribus vicibus, diversis temporibus, in quadam domo posito

Florentie in populi sanati Florentii Gerardum de Rignano et Lucam

patarenum, consolatos, quibus patarenis ipse fecit ibidem pluribus

vicibus diversis temporibus reverentiam et adorationem secundum

ritum patarenum dicendo: Benedicite boni christiani etc. Item

quod ipse credit se comedisse pluries de pane, quem patareni

dicunt panem benedictum, tempore pueritie sue. Unde cum pre-

dictus Lapus redire desideret ad ecclesiasticam unitatem, a qua

deviando peccavit, et in ea vite portionem exigere, quam sibi divina

virtus indulxerit, a me suppliciter postulavi! ut sibi auctoritate

Apostolica absolutionis beneficium impertiremus sue que saluti mise-

ricorditer provideremus, sibi prò premissis excessibus imponendo

penitentiam salutarem. Ego vero ipsius Lapi salutem desiderans il-

lius intuitu, qui vult omnes homines salvos fieri, ab eo corporale

iuramentum et abiurationem ad sanam et puram intentionem

meam in hac forma recepì. Ego Lapus filius olim lohannis Pe-

rini populi sancti Romuli de Florentia recognosco et confiteor

coram vobis fratre Bartholomeo Senensi ordinis Minorum aucto-

ritate Apostolica Inquisitore heretice pravitatis, me in predictis

errasse et super hiis corde contrito et humiliato absolutionem et

penitentiam requiro. Et hanc heresim videlicet patarenam et

omnem aliquam, quocumque nomine censeatur, abiurans iuro et

promitto quod de cetero servabo illibatam fidem, quam sacrosancta

Romana ecclesia servat et tenet et predicat, et quod hereticos et

credentes eorum toto posse meo persequar, et tam eos quam

eorum fauctores, receptatores et benefactores bona fide et sine

dolo et mora manifestabo episcopo civitatis vel loci ordinario

seu inquisitori vel inquisitoribus heretice pravitatis, et penitentiam,

que mihi propter dictam culpam meam iniungetur, integre ser-

vabo et perfecte complebo, et volo atque concedo quod si ab hac

bora in antea me contigerit relabi ad eumdem errorem vel ad

alium cuiuscumque heresis, quocumque nomine censeatur, errando

forte in aliquo capitulo, seu fidem habendo errantibus, vel eos

aut credentes eorum recipiendo scienter, aut defendendo, aut fo-

vendo dicto vel facto, aut eis benefacendo qualicumque eorum

celando aut non manifestando, bona fide et sine mora ab inde

ipso facto excomunicatus habear periurius et hereticus manife-

stus. Et talem ego me iudico, ita quod sine ampliori cognitione et

sententia, que viris relapsis infligitur et hereticis manifestis mihi

 

 

-67 -

pena imponatur. Insuper assero et protestor me totam et puram

veritatem de me et aliis, in quantum scio dixisse, et si forte con-

stare poterit me de ventate malitiose aliquid suppressisse, impo-

nenda vel iniungenda mihi a vobis penitentia, et absolutio obtempta

vel obtinenda nihil mihi prosit, et iuro si Deus me adiuvet eiu-

sque sancta evangelia, Huiusmodi itaque iuramcnto prestito et

recepto, et abiurata orane heresi quocumque nomine censeatur,

prefato Lapo ab onini excomunicationis sententia, qua propter

premissos excessus incurrerat iuxta formam Ecclesie, ex aucto-

ritate premissa, qua fungor, beneficium absolutionis impendi, et

mecum deliberatione diligenti prehabita rigorem iustitiae miseri-

corditer temperans, eidem prò pena et penitentia ratione premis-

sorum excessruum imposui, infrascripta decernens ipsum ea debere

inviolabiliter observare, videlicet ut semel saltem in anno suorum

confessionem faciat peccatorum, et, nisi de sui Consilio confessoris

abstineat, recipi eucharistie sacramentum. Cotidie quando com-

mode poterit intersit integraliter missarum solemniis, et singulis

diebus dominicis et festis solepnibus predicationem integraliter

audiat verbi Dei, praeter ieiunia ab ecclesia indicta ieiunet una

die singulis septimanis bine ad septem annos, quando commode

poterit, et si commode non possit, qualibet die qua omittetur

{ mutila in fine ).

Doc. N. 23.

Coppi di Prato — 9 Settembre 1297.

In Dei nomine Amen. Ego frater Alamannus de Luca aucto-

ritate apostolica inquisitor in Tuscia heretice pravitatis. Quia

per acta Inquisitoris et per propriam confessionem factam sub

examine olim bone memorie fratris lacob de Pistorio, tunc in-

quisitoris pravitatis predicte, inveni quod Gollus Bonacorsi de

Prato in defensionem Cavalcantis fratris sui armatus venit ad

plateam fratrum Minorum de Prato, et bellavit contra familiam

inquisitoris et pluribus aliis complicibus suis et contra eos, qui

fidem et inquisitionis officium defendebant, ad hoc ut predictus

Cavalcante frater eius non puniretur per predictum fratrem lacob ;

qui Cavalcante cum quibusdam aliis rebellabat et obedire nolebat

ipsi fratri lacob tunc inquisitori dicendo quod ipse Inquisitor eis-

dem iniuriam inferebat, cum tamen ipse Cavalcante et sotij sui

per inquisitionem dicti Inquisitoris et eorum propriam confessio-

 

 

— 68 —

nem inventi fuissent hereticorum credentes ut in actis Inquisitionis

plenius continetur. Nec ipse Gollus absolutus fuerit a sententia

escomunicationis, quam propter premissum enormem excessum

incurrerat, set solum fuit ei iniunta penitentia per predictum fra-

trem lacob, et denumptiatus per eumdem fuit excomunicationis

sententiam incurrisse ac hanno imperialis maiestatis bannitus.

Cum ipse Gollus a me humiliter postulet ut eidem absolutionis

beneficium debeam impertiri absolvendo ipsum ab vinculo exco-

municationis quam propter enormem excessum incurrit, eius

piis et iustis precibus de maturo Consilio inclinatus ab eodem

Collo ad sanam et puram intentionem meam corporale iuramen-

tum in hac forma recepì. Ego Gollus confiteor coram vobis, fratre

Alamanno, me in predictis enormiter excessisse, et corde contrito

et humiliato ab vobis penitentiam et absolutionem requiro, et

abiurando omnem heresim, quocumque nomine censeatur, iuro

atque promitto quod de cetero servabo et prò fide habebo et

habui usque modo lìdem quam sacrosancta Romana Ecclesia ser-

vat, tenet, credit, docet et precipit observare, et quod prò posse

meo persequar omnem heresim et utriusque sexus hereticos, cre-

dentes receptatores et fautores eorum, nec eis uUo unquam tem-

pore prestabo auxilium, consilium vel favorem. Sic Deus me

adiuvet eiusque sancta Evangelia. Hiusmodi itaque iuramento

prestito et recepto et abiurata omnem heresim, quocumque no-

mine censeatur, eundem et ex premissa (') ab

omni vinculo excomunicationis, in quam propter premissum enor-

mem excessum incurrerat, absolvi reincorporando (in) ipsam eccl

(esiam) ratione prehabiti rigorem iustitie misericorditer tempe-

rans et ipsum ab omni pena et penitentia imposita eidem prò

pena et penitentia imposita infrascripta, decernens ipsa ea de-

bere inviolabiliter observ. faciat peccatorum et recipiat semel

reverenter eucaristie sacramentum, duodecim etiam paternoster, et

de toto tempore vite sue vadat etiam diebus dominicis et festivis

solempnibus ad ecclesiam missarum solempnia auditurus, et to-

tidem quando commode poterit, predicationem audiat verbi Dei,

riservata mihi meoque coinquisitori et nostris successoribus ad

hec addendi et minuendi et commutandi et condempnandi eum

pecuniaria condempnatione libera et plenaria potestate.

 

 

(') Le lacune qui e appresso son dovute ad un foro nella carta; onde i com-

plementi non sono certi.

 

 

-69-

Lata et pronuntiata fuit dieta sententia per dictum fratrem

Alamannum inquisitorem sedentem prò tribunali in curia Inquisi-

tionis in loco fratrum minorum de Prato et lecta per me Canellum

notarium de mandato dicti Inquisitoris sub annis Domini Mille-

simo ducentesimo nonagesimo septimo Indictione decima die

nona mensis septembris, presentibus fratre Antonio de Macello,

fratre Laurentio de Prato et fratre loseppo et fratre Luca de

Prato ordinis Min^um domino Chello de Guiliccioni domino

Teghia de Pughensis, domino Ranuccio de Rinaldeschis et Ar-

rigo lacobi de Prato testibus ad hec rogatis et vocatis et aliis

pluribus.

Ego Caurennellus filius Ughetti imperiali auctoritate iudex et

notarius de plebe veteri presentem seriem de mandato fratris Ala-

manni Inquisitoris suprascripti scripsi et publicavi.

Doc. N. 24.

Riformagioni.

19 Luglio 1309.

In Dei nomine Amen. Anno a nativitate Domini Millesimo

Trecentesimo nono Indictione vij die decimo nono Julij. Actum

Florentie in loco fratrum Minorum, presentibus testibus ad hec

vocatis et rogatis, domino Forese de Rabbatta iudice, domino

V^anne Benini del Formica iudice, domino Baldo de Fighine iudice,

Thomasio filio Duci Magalotti, Dante filio olim Lapi clerici et

Guillelmo filio olim Gherardi Lupicini. Cum bona omnia olim

Gherardi olim Gianni del Massaio de Lupicinis de Florentia sint

confiscata occasione criminis heresis per eumdem Gherardum com-

missi, ut patet de huiusmodi confiscatione per sententiam sive de-

clarationem religiosi viri fratris Andree fiorentini ordinis Minorum,

auctoritate apostolica Inquisitoris heretice pravitatis, scripta manu

mei Opizi notarij, Dominus Ubertus iudex filius domini lacobi de

Certaldo et Corradus olim domini Persi de Compiobio, sindaci

Conimunis Florentiae prò offitio Inquisitionis contra hereticam

pravitatem, ut constai eos esse sindicos per instrumentum scri-

ptum et sumptum manu ser Guidonis Caponi notarij de Mutina ex

actis Comunis Florentie scriptis manu ser Bonsegnoris notarij

de Mutina scribe reformationum dicti Communis, a me iam dicto

 

 

— 70 —

Opizo notarlo visum et lectum de Consilio et assensu religiosi

viri fratris Andrea Inquisitoris predicti ibidem presentis, consu-

lentis et assentientis sindicario et procuratorio nomine prò dicto

Comuni, quilibet eorum sine aliqua exceptione iuris vel factl, dictum

Commune et bona dicti Communis principaliter et in solidum obli-

gando, dederunt vendiderunt et tradiderunt iure proprio imperpe-

tuum Meliorato filio quondam Borghesis Meliorati Dominici infra-

scriptas domos, possessiones res et bona, que fuisse dicuntur in

bonis et de bonis olim Gherardi predicti, ut dictum est, ratione he-

resis confìscatis et eis infrascriptos esse confines. In primis unum

podere terre et cultus cum magnis domibus curte et puteo, et cum

tribus domibus prò habitatione laboratorum, et cum vineis et bosco

et arboribus positis in populo plebis de Ripolis loco dicto Petroio

et loco dicto Fiosso a j, ij via, a iij via et Foresini Rinucini viot-

tola in medio inter dictum podere et dictum Foresinum, a iiij Bar-

giacchie et Giannini Bonfiglioli, excepta tamen ab hac venditione

terra Bucini Lupicini, que est infra predictos confines. Item aliud

petium terre cum logia positum ibi prope ex opposito supra-

scriptarum magnarum domorum cum domo prò habitatione labo-

ratorum a j et ij via, a iij heredum Scorcie de Lupicinis, a iiij he-

redum Cerre de Lupicinis. Item aliud petium terre positum ibi

prope a j via, a ij heredum Cerre de Lupicinis, a iij Gieri domini

Gherardini de Malaspinis, a iiij Abbatie fiorentine. Item aliud

petium terre positum ibi prope a j heredum Cerre de Lupicinis,

a ij terra Abbatie fiorentine, a iij lohannis Jacotti de Malaspinis et

a iiij heredum Bernardi Ubaldini. Item unum aliud podere cum

domibus positum in loco dicto a la mora a j, ij, iij et iiij via. Item

aliud podere cum domibus positum in dicto populo plebis a j strata

publica, a ij Philippi Ristori, a iij via et a iiij Lupicini de Lupicinis.

Item tertiam partem prò indiviso unius casolaris positi Florentie

in populo Sancti Stephani ad pontem a j et ij via, a iij Rugeri do-

mini Ubberti de Pulcis et fratrum, a iiij turris del Pelacane et

predicti Rugerij et fratrum. Item tres partes prò indiviso de octo

partibus prò indiviso unius casolaris positi in dicto populo Sancti

Stephani ad Pontem a j, ij et iij via et a iiij de Pulcis, domus que

fuerunt de Rocchettis. Item duas partes prò indiviso de tribus par-

tibus prò indiviso unius casolaris positi in dicto populo sancti

Stefani ad pontem a j, ij et iij via, a iij plebani Claudi de Gherardinis

et fratrum et nepotum et Rosselli del Rosso et a iiij de Lucarden-

sibus. Item unum casolare positum ( lacuna ) a j, ij, iij do-

mini Vanni et Lapi Benini del Formica et a iiij heredum sep Aghi-

 

 

— vi-

netti et Manettini del Formica sive alii sint veriores confines. Ita ut

a. modo et deinceps predictus Melioratus emptor, eiusque heredes

"ft cui dabit vel concesserit in perpetuum predicta omnia sibi

vendita, habeat et teneat una cum accessu et ingressu superio-

ribus et inferioribus suis omnibusque iuribus et utilitatibus ipsis

rebus venditis et eidem Communi et officio Inquisitoris in eisdem

integre pertinentibus faciendo inde iure proprio quidquid voluerit

sine omni dicti Comunis et officij Inquisitionis et cuiuslibet alterius

persone et loci contradictione. Item ex causa venditionis dede-

runt et cesserunt et tradiderunt ei omnia iura et actiones reales et

personales utiles et directas et quaslibet alias quae et quas dictum

Commune et officium Inquisitionis habebat in dictis rebus ven-

ditis et nomine et occasione dictarum rerum venditarum adversus

<}uamlibet personam rem et locum, Constituendo eum inde prò-

curatorem ut in rem suam et ponendo eum in loco dicti Communis

et officij Inquisitionis; ita ut a modo suo nomine actionibus utilibus

et directis possit agere, experiri, excipere, replicare, consequi et

se tueri, petere penas, dapna et expensas et interesse et bona

obligata uti et omnia facere atque omnibus eisdem modis, velut

dictum commune et officium Inquisitionis facere poterat aut pos-

set. Eique tenutam predictarum rerum venditarum preceperunt

ijpprehendere corporalem auctoritate propria, et interdiu dictum

Commune et officium Inquisitionis prò eo et eius nomine consti-

tuerunt possidere facientes et constituentes Puccium Dogini, licet

absentem, eorum et dicti Communis et offitij Inquisitionis nuntium

et procuratorem ad inducendum eum et ad dandum sibi tenutam

et corporalem possessionem omnium predictarum rerum sibi ven-

ditarum, promittentes ei nomine quo supra de predictis rebus

venditis aut de aliqua parte ipsarum ei vel eius heredibus litem

vel molestiam ullo tempore non inferre, nec inferenti consentire,

sed semper ei et eius heredibus predictas res sibi venditas tam

in proprietate quam possessione ab omni persona universitate et

loco defendere, autorizare, et disbrigare ab omni persona univer-

sitate et loco expensis dicti Comunis in iudicio et extra in omni

casu et litis eventu secundum morem et consuetudinem Civitatis

Florentie prò ipsorum et dicti Communis et offitij Inquisitionis

dato et facto tantum et non aliter, ita quod ad restitutionem pretii

nec ad interesse nec ad aliquid nisi ut dictum est ei teneantur.

Et predictam venditionem et omnia et singula in presenti con-

tractu contenta firma et rata perpetuo habere et tenere, et non

contrafecisse in aliquo vel venisse nec in futurum contrafa-

 

 

cere vel venire per se vel per alium aliquo casu vel ingenio

de iure vel de facto sub pena dupla unde ageretur et insuper

dupli pretij infrascripti solepni stipulatione promissa, cum refectione

dapnorum et expensarum litis et extra et pena soluta vel non,

predicta omnia et singula in sua permaneant firmitate prò precio

trecentorum florenorum aureorum, quod pretium dicti Sindici

fuerunt confessi et contenti se a predicto Meliorato emptore sin-

dicatorio et procuratorio nomine prò dicto Comuni habuisse et

recepisse, ac eis integre datum solutum et numeratum esse exce-

ptioni sibi non dati non soluti et non numerati pretii et omni alii

omnino renuntiantes, prò quibus omnibus et singulis firmiter obser-

vandis obligaverunt ei pignori omnia bona dicti Comunis presentia

et futura, renuntiantes novarum Constitutionum et epistole divi

Adriani benefitio fori privilegio et omni alio auxilio, hoc pacto

apposito in principio presentis contractus medio atque fine con-

corditer et expresse et inter partes et contrahentes predictos,

quod dictus Melioratus emptor teneatur et debeat solvere omnia

onera dotum et usurarum, et omnia alia ad que solvenda ipse

Gherardus et eius bona obligata erant, quando dictus Gherardus

vivebat, et ad que esset obligatus dictus Gherardus quando vi-

vebat, si semper catholicus fuisset. Et etiam teneatur et debeat

solvere onus legati sive relieti facti per dictum Gherardum Lippo

nepoti suo filio olim Ridolfi de Lupicinis, et sic predictus emptor

ex certa scientia per stipulationem sollepnem promisit et convenit

michi Opizo notarlo, tamquam persone publice stipulanti et reci-

pienti prò omnibus et singulis quorum interest vel intererit. Et

prò predictis omnibus et singulis observandis et adimplendis

obligavit dictus emptor michi iam dicto notarlo stipulanti et reci-

pienti, nomine quo supra, dieta bona per eum empta solam et non

alia sua bona cum pactis omnibus modis et condictionibus infra-

scriptis, ita quod persona dicti emptoris et cetera eius bona prò

predictis solvendis convenir! vel gravari non possint nisi in dictis

et prò dictis bonis emptis et non ultra valentiam ipsorum, et quod

supradicta bona ex nunc obligata intelligantur fuisse et sint uni-

cuique creditorum dicti Gherardi ex eo tempore et cum iuribus

et actionibus realibus et personalibus et cum ypothecis pretoris

et conventionalibus, cum quibus et sub quibus obligata fuissent

et essent si dictus Gherardus semper catholicus extitisset, preter

supradictum podere de la mora, quod habet undique viani, quod

intelligatur esse venditum liberum et expeditum sine aliquo onere

hoc apposito etiam et declarato inter partes predictas, quod

 

 

~ 73 -

per dictam emptionem et per pacta predicta non intelligatur esse

nec sit diminutum vel augmentatum aliquod ius dictoruni credi-

torum, nec ipsi creditores Gherardi intelligantur vel sint gravati

vel alleviati in aliqua probatione eorum iurium, set sint in eorum

statu primevo, qui inter predictos contrahentes sic actum extitit

et conventuni. Quibus Sindicis et Meliorato predicta vclentibus

et confitentibus sit observare debere precepi. Ego Opizo nota-

rius infrascriptus prout licebat ex forma Capituli et Constituti

Comunis Florentiae de guarentigia nomine iuramenti quatenus

defendant, observent et faciant ut promiserunt et superius con-

tinetur.

Ego Opizo de Pontremulo apostolica et imperiali auctoritate

notarius et scriba ofìfitii Inquisitionis existens predictis omnibus,

dum agerentur, interfui et ea rogatus scripsi et publicavi.

Doc. N. 25.

S. Apollonia di Firenze — 23 Agosto 1313.

In Dei Nomine Amen. Ego frater Grimaldus de Prato ordinis

Minorum auctoritate Apostolica Inquisitor heretice pravitatis in

Provincia Thuscie. Notum facio universis Christi fidelibus quod

cum Inquisitionis oflficium exercerem, per acta ipsius officii Inqui-

sitionis inveni dominum Gerardum Neri de Nerlis de Florentia,

defunctum, olim fuisse hereticum et hereticos adorasse et in mor-

tis articulo hereticos habuisse presentes, et ipsius Domini Gerardi

memoriam post mortem suam tamquam heretici et in heresi de-

functi per sententiam fratris Salomonis olim heretice pravitatis

Inquisitoris fuisse dampnatam. Et quod ego frater Grimaldus In-

quisitor prefatus ipsius domini Gerardi heredes et posteros usque

ad secundam progeniem ipsiusque filios et nepotes, secundum

papales constitutiones et leges Imperiales contra hereticos editas,

privatos esse benefitiis cunctis temporalibus, publicis officiis et

consiliis, personatibus, dignitatibus, benefitiis ecclesiasticis et hono-

ribus quibuscumque, super hoc requisito et habito Consilio Venera-

bilis patris domini Antonii dei gratia Episcopi fiorentini, mea sen-

tentia declaravi et denuntiavi et nihilominus predictis personatibus,

dignitatibus, benefitiis ecclesiasticis et aliis quibuscumque honori-

bus ipsos privavi, ac privatos denuntiavi, ita quod et habitis per-

petuo careant, et ad alia vel similia nequaquam in posterum ad-

 

 

— 74 —

rnittantur. Et insuper rogavi, monui et requisivi in eadem sententia

dominos Potestatem, Capitaneum et Priores et alios regiminis

Comunis Florentie deputatos et in posterum deputandos, eosque

precepi quatenus, sicuti reputari cupiunt ortodoxe fidei zelatores,

prefatas constitutiones et leges, in quarum observantia Dei et fidei

negotium agitur, reverenter et sollicite observantes, predictos he-

redes et posteros usque ad secundam progeniem filios et nepotes

dicti domini Gerardi ad aliquod officiuni publicum vel consilium

nullatenus in futurum admittant ncque patiantur sive dissimulent

quod ipsi utantur sive potius abutantur predictis benefitiis tem-

poralibus, publicis officiis, consiliis, personatibus, dignitatibus, be-

nefitiis ecclesiasticis et honoribus quibuscumque, sub pena ducen-

tarum raarcharum argenti ab ipsis dominis Potestate, Capitaneo

Prioribus et Rectoribus, si quod absit predictas non servarent

constitutiones circa diete declarationis sive sententie executio-

nem, inremissibiliter exigenda, nec non et sub aliis penis in

constitutionibus ipsis contentis. Auctoritate quoque iam dieta om-

nes et singulos descendentes ex dicto domino Gerardo per li-

neam masculiham, usque ad secundam progeniem, tam clericos

quam laycos monui ipsisque districte precepi, quod ab omnibus

et singulis supradictis eis prohibitis abstineant, nec ea vei aliquod

eorum ullatenus de facto assumant, nec eis se aliquatenus inge-

rant per se vel per alium, et si qua vel aliquod ex eis contra pa-

pales vel imperiales constitutiones vel leges habent vel detinent,

illa sive illud infra triginta dierum spatium, quorum decem prò

primo, decem prò secundo et reliquos decem prò tertio et pe

remptorio termino eis assignavi, illis ad quos de iure spectat re-

ceptio resignationis huiusmodi, debeant libere resignare, clericis

videlicet sub pena excomunicationis, quam ex tunc in eos tuli,

inscriptis, et quam eos volui incurrere ipso facto, si premissis vel

alicui premissorum presumpserint contraire; laycis vero quibus-

libet de predictis filiis et nepotibus dicti domini Gerardi sub pena

quingentorum florenorum auri applicandorum et solvendorum of-

ficio Inquisitionis, in quibus ex tunc quemlibet eorum contra fa-

cientem multavi sive condepnavi, quam penam ab eis et a quo-

libet eorum contrafaciente esigendam esse decrevi prò qualibet

vice qua predictis vel alicui predictorum presumpserint contraire,

attendens quoque mandatum apostolicum, quo mihi et aliis Inqui-

sitoribus iniungitur quatenus in caritate Dei, hominum timore

posposito, virtutem spiritus induentes ex alto, predictum officium

efficaciter prosequi studeamus, ad ipsius negotii prosecutionem et

 

 

— 75 —

declarationem predictarum sententiarum et personarum, que dictis

sententiis adstringuntur, intendere procuravi, et facta diligenti

examinatione et inquisitione solepni tam per testes ydoneos ac

fide dignos quam etiam per confessiones et abiurationes ac dieta

filiorum olim dicti domini Gerardi et alia acta Inquisitionis offitii su-

pradicti, per manifestissimas probationes inveni dominos Ugolinum

et Cantem et Nerlum ac etiam Bertuccium fuisse filios domini

Gerardi iam dicti, et quod ipse dominus Gerardus eos prò filiis

et predicti eum prò patre publice tractaverunt. Et quod Goccia

fuit fiiius dicti domini Ugolini, Coppus et frater Johannes fuerunt

filii dicti domini Nerli, dominus Gerardus, qui se gerit prò priore

Ecclesie Sancti Quirici de Capalle et prò canonico sancti Fridiani

de Florentia, Goccinus, Baldinus et Marchus sive Marchettus fue-

runt filii dicti Bertuccii. Et consequenter apparet ipsos Gocciam

domini Ugolini, Coppum et fratrem lohannem domini Nerli, domi-

num Gerardum, Goccinum, Baldinum et Marchum sive Marchet-

tum Bertuccii fuisse nepotes per masculinam lineam descendentes

ex dicto domino Gerardo de heresi damnato, et cuius memoria

tamquam heretici et in heresi defuncti dampnata fuit; et occasione

predicta ipsos citari et requiri feci et eorum procuratores et eis

terminum assignavi ad faciendum omnem eorum defensionem et

monstrandum, probandum et inducendum quidquid monstrare

probare vel inducere vellent prò eorum iure, et defensionibus iu-

stis et legittimis, si quas haberent vel monstrare vellent, infra quem

aut postea nil iustum aut legitimum monsraverunt, neque defen-

sionem fecerunt, quamvis aliqua ad eludendum et frustranduni

potius processum proponere conarentur. Ideoque examinatis et

diligenter consideratis predictis omnibus et aliis facientibus ad

predicta et ea contingentibus, et papalibus et imperialibus consti-

tutionibus et rescriptis apostolicis et cunctis considerandis, et habito

consiiio super hiis quamplurium peritorum iuris canonici et ci-

vilis clericorum et religiosorum virorum, et aliis habitis consiliis

opportunis et ipsorum consìliorum formam sequendo hac pre-

senti sententia declaro et declarando pronuntio suprascriptos

Gocciam, filium olim domini Ugolini, Coppum et fratrem lohan-

nem, filios olim domini Nerli, dominum Gerardum Goccinum Bal-

dinum et Marcum sive Marchettum, filios olim domini Bertucci,

fuisse nepotes scilicet filios filiorum domini Gerardi predicti de

heresi dapnati, et cuius memoria tamquam in heresi defuncti dam-

pnata fuit, ex eo descendentes per lineam masculinam infra se-

cundam generationem. Et ipsos comprehendi et comprensos fuisse

 

 

- 76-

sententiis supradictis et teneri penis, que filiis et nepotibus here-

ticorum per masculinam lineam descendentibus usque ad secun-

dam generationem a papalibus et imperialibus constitutionibus

infliguntur^ ipsosque presenti sententia et declaratione privo vel

privatos potius nuntio personatibus dignitatibus et aliis benefitiis

et offitiis ecclesiasticis, offitiis publicis et honoribus quibuscumque,

nec non et consiliis pubblicis et benefitiis cunctis temporalibus^

ita quod et habitis perpetuo careant et ad alia vel similia ne-

quaquam in posterum admittantur. Cum etiam ex iniuncto mihi

offitio ad me spectet ac manifeste constitutiones predictas et

leges a Potestatibus, Capitaneis, Consulibus et Rectoribus Civi-

tatum et Terrarum et a quibuscumque aliis facere observari, rogo^

monco et requiro dominos Potestatem Capitaneum et Priores et

alios Regimini Comunis Florentie deputatos et in posterum de-

putandos, eisque premissa qua fungor auctoritate precipio, qua-

tenus, sicutì reputari cupiunt ortodoxe fidei zelatores, prefatas

constitutiones et leges, in quarum observatione Dei et fidei nego-

tium agitur, reverenter et sollicite observantes, predictos domini

Gerardi nepotes ad aliquod officium publicum vel consilium nul-

latenus in futurum admittant, neque patiantur sive dissimulent

quod ipsi utantur sive potius abutantur predictis beneficiis tem-

poralibus, publicis offitiis consiliis, personatibus, dignitatibus, be-

nefitiis et honoribus quibuscumque sub pena in alia mea sen-

tentia seu declaratione contentis, videlicet ducentarum marcharum

argenti ab ipsis dominis Potestate Capitaneo Prioribus et Recto-

ribus et quolibet ipsorum, si quod absit predictas non serva-

rent constitutiones circa presentis declarationis et nuntiationis

sive sententie executionem, irremissibiliter exigenda, nec non et

sub aliis penis in Constitutionibus ipsis contentis. Et quia non-

nulli temere contra iuris et Inquisitorum mandatum facere non ve-

rentur, mihique commissa est faciendi observari papales constitu-

tiones et leges imperiales circa hec editas piena facultas, eadem

auctoritate omnes et singulos suprascriptos et nominatim desi-

gnatos domini Gerardi predicti nepotes tam clericos quam laicos

monco, ipsisque districte precipio, quod ab omnibus et singulis

supradictis eis prohibitis abstineant, nec ea nec aliquod eorum nul-

latcnus de facto assumant, nec eis se aliquatenus ingerant per

se vel per alios, et si qua vel aliquod ex eis contra papales vel

imperiales constitutiones, leges vel traditiones habent vel detlnent,

illa sive illud infra viginti dierum spatium, quorum sex prò primo

et sex prò secundo et reliquos otto prò tertio et peremptorio

 

 

— 77 —

termino eis assigno illis ad quos spectat de iure receptio resi-

gnationis huiusmodi debeant libere resignare, clericis videlicet sub

pena excomunicationis, quam ex nunc in ipsos clericos in hiis

scriptis fero, eosque volo incurrere ipso facto si premissis vel

alieni eorum presumserint contraire; laycis vero quibuslibet de

supranominatis et descriptis domini Gerardi nepotibus sub pena

quingentoruni florenorum auri applicandorum et solvendorum of-

fitio Inquisitoris et dividcndorum sicut alia bona que occasione

heresis confiscantur. In quibus ex nunc quemlibet ipsorum con-

trafacentium mulcto et mulctando condempno, quam penam ab eis

et quolibet eorum contrafacientes exigendam esse decerno prò

qualibet vice qua predictis vel alicui predictorum presumpterint

contraire {lacuna nel testo) et examinationes.

Lata et pronuntiata sunt hec per predictum fratrem Grimal-

dum Inquisitorem sedentem prò tribunali Florentie in loco fra-

trum Minorum presente dicto domino Gerardo, qui solitus est se in-

gerere prò Priore Ecclesie Sancti Quirici de Capalle et prò Canonico

santi Fridiani, et ser Petro Paganuccij procuratore predictorum de

Nerlis absentibus, predictis Goccia, Coppo, fratre lohanne. Goccino,

Baldino, Marcho sive Marchetto legitime tamen et peremptorie ci-

tatis ad hanc sententiam audiendam, presente etiam Notario Be-

rardo familiare et notario Magnifici Viri domini lacobi Cantelmi

vicario in civitate Fiorentina prò illustri domino, domino Rege

Roberto, et presente me Opizo dicti Inquisitoris et officii Inquisi-

tionis notario, qui hanc sententiam de mandato dicti Inquisitoris

scripsi et in publicam formam redegi, nec non et presentibus te-

stibus dopno Galgano et dopno Martino Monachis abbatie Fio-

rentine, domno Manno plebano de Ripolis canonico maioris ec-

clesie fiorentine, ser Orlando Rectore ecclesie sancte Cicilie,

domino lacobo priore ecclesie sancti Stefani ad pontem, fratre

Ramundo de Grassa de provincia, fratre Juvenale de Aleis ordi-

nis Minorum, domino Thomasio de Donatis, domino Goccia de

Maneriis, ser lohanne olim ser Guidi de Mucello, et ser Benvenuto

olim ser Rodulfi de Trisantis servit. Inquisii, et aliis multis. Anno

a Nativitate Domini Millesimo Trecentesimo tertiodecimo Indi-

ctione undecima die vigesimotertio Augusti.

Ego Benvenutus olim ser Rodulfi de Trisanti Imperiali Autto-

ritate iudex ordinarius et notarius publicus et scriba offitii Inqui-

sitoris existens predicta omnia ex attis offitii Inquisitionis existen-

 

 

- 78 -

tibus Florentie penes officium Inquisitionis scripsi, et hic de mandato

reverendi viri fratris Grimaldi Inquisitoris predicti scripsi et in

publicam formam redegi, ideoque subscripsi et quod superius

transpositum et signatum est, scilicet et examinationes, propria

manu signavi et scripsi sub anno domini ab eiusdem incarna-

tione Millesimo Trecentesimo tertio decimo, die ultimo mensis

februarij.

 

 

QUESTIONI DANTESCHE

 

 

Memoria comunicata alla R. Accademia di Scienze Morali e Politiche

della Società Reale di Napoli nel 1897 {Atti voi. XXVIII).

 

 

Una quistione dantesca molto antica, ma sempre rinascente,

è quella che riguarda colui che kce per viltà il gran rifiuto.

I commentatori più antichi erano tutti concordi nel vedervi Ce-

lestino; e checché ne dica Benvenuto da Imola (*), la loro opi-

nione nella maggior parte dei casi è la più accettabile in fatto

di allusioni, perché sono i più vicini al tempo di Dante ed in

migliori condizioni quindi a coglierle. Nessun altro personaggio

storico s' adatta alle parole del poeta meglio di Celestino, e i

diversi tentativi fatti di sostituirlo fallirono tutti miseramente.

Una difficoltà però e' è sempre, sulla quale l' amico D' Ovidio,

pur consentendo coi commentatori più antichi, chiamò la mia

attenzione. Com e mai Dante, che era ortodosso a tutta prova,

potè mettere all' inferno un uomo, che la Chiesa aveva canoniz-

 

 

(') Benvennti de Rambaldis de Imola Commenturo, Florentiae MDCCCLXXXVII,

I p. 117: " Certa communis et vulgaris fere omnium opinio esse videtur quod

autor noster hic loquatur de Celestino quarto (sic), qui vocatus est frater Petrus

de Morono, quod multipliciter probare videntur. Primo quidem necessario viden-

tur arguere quod autor dicit il gran rifiuto et sic antonomasice videtur debere

intelligi de papatu ,. Contro questa buona ragione Benvenuto non sa opporre

se non il giudizio suo su Celestino che * fuit magnanimus ante papatum, in pa-

patu et post papatum „. E conchiude che Dante intende accennare piuttosto ad

Esaù " qui fecit magnam refutationem quando renunciavit omnia primogenito suo

fratri lacob „ !

Tocco. 6

 

 

— 82 —

zato come santo? A questa difficoltà parecchi han cercato di

rispondere, E il Todeschini fra gli altri (I, 202; II, 350), sul-

r autorità della cronaca del Villani e del commento del Boc-

caccio, dice che Celestino fu canonizzato da Giovanni XXII

nel 1328, vale a dire sette anni dopo la morte di Dante, né il

divino poeta aveva l' obbligo di prevedere questa tarda glori-

ficazione.

Ma realmente le cose non stanno come il Villani e il Boc-

caccio le raccontano. Un' autorità ben superiore al Villani e al

Boccaccio, il cardinale Jacopo Stefaneschi, testimone oculare (^),

nel suo Opus metricum racconta per diffuso come il 5 mag-

gio 1313 Clemente V, dopo di avere tenuto uno splendido di-

scorso sul Morronese, nel quale pili che altro loda 1* umiltà che

venne a tale da consigliargli di abdicare al Pontificato, lo pro-

clama santo, ed egli per primo col brillante seguito di cardinali

e prelati si prostra innanzi all' altare del prigioniero di Castel

Fumone. Questa testimonianza è confermata da tutti gli altri

contemporanei, come Giovanni da S. Vittore, Bernardo Gui e

Tolomeo da Lucca (^), ma basterebbe da sola a dissipare tutte

le dubbiezze. Il problema quindi resta intatto, come cioè un

poeta cattolico, quale si professa Dante, abbia potuto tacciare di

viltà un atto, che il sommo Pontefice in occasione solenne di-

 

 

(') Nella prefazione in prosa all' opera sua lo stesso cardinale afierma che

la santificazione accadde con gran pompa " tertio nonas maji anni millesimi tri-

centesimi decimi tertii... Avenione Cathedrali Ecclesia, nobis sibi Levilae officio

ministrantibus „ (Muratori Scriptores III p. 618). Lo stesso dice nel lib. 2 cap. 8

del poema ( ivi p. 663 ) :

" Dixerat (Clemente V) et surgens, nobis astantibus, inquit

Proclamatque : veni replens pia corda, Creator

Spiritus, et genibus stravit se in pulvere, flexis

Quoque aliis; surgitque iterum, cui vertice mitram

Imposui dextra minimus Levita, sed ordo

Quippe dabat „.

Chi desideri notizie sul cardinale Stefaneschi vegga lo studio del Dr. A. De

Angeli nel volume Celestino V ed il sesto centenario della sua incoronazione.

Aquila, 1894, p. 381 e segg.

C) Baluze, Vitae Paparum Aven. I. 19, 51, 78.

 

 

-83--

chiara fastigio dell' umiltà e tale da fruttare non la pena degl' in-

fingardi neir antinferno, ma l'aureola di gloria nel paradiso? Si

potrebbe rispondere, che in verità la canonizzazione di un santo

non è uno di quei pronunziati ex cathedra, a cui il cattolico non

possa ribellarsi senza cadere nell' eresia. È un giudizio che il

Papa pronunzia, dopo un processo lungamente dibattuto tra le

parti contrarie, e nulla vieta che il giudice s' inganni. Guai se

si pensasse altrimenti; perché almeno in fatto di beati talvolta

si sono assunti a tale onore uomini, la cui ortodossia era molto

dubbia, come ad esempio l' abate Gioacchino ed il Clareno. Il

cattolico dunque non è tenuto a credere per santi tutti quelli,

che la Chiesa conta nel suo catalogo, e se le ricerche storiche

o altro motivo consimile lo inducono a pensare diversamente,

non per questo cade in peccato o in eresia. Nel caso nostro poi,

se anche Dante avesse saputo per filo e per segno il discorso

tenuto da Clemente V, non per questo gli avrebbe creduto; per-

ché su questo papa che per compiacere a Filippo il Bello tra-

sferi la sede pontificia ad Avignone, egli porta il più severo

giudizio, e lo destina addirittura all' inferno come pastor sema

kgge, che (XIX, 85)

Nuovo Jason sarà, di cui si legge

Nei Macabei; e come a quel fu molle

Suo re, cosi fia a lui chi Francia regge.

Che valore poteva avere agli occhi di Dante la santificazione

pronunziata da un Papa sfacciatamente simoniaco? Tanto pili

che non era un mistero per alcuno, che la santificazione di Ce-

lestino fu imposta da Filippo il Bello per fare onta alla memoria

di Bonifacio Vili. Il re francese volle anzi s' istruisse un pro-

cesso contro il defunto Papa, che con l' inganno e la frode

avrebbe carpita la tiara. E fu d' uopo di non poco accorgimento

nel Pontefice per sottrarsi alle insistenze del suo protettore, il

quale, se disperato di spuntarla s' acconciò a rinunziare al pro-

cesso, chiese per compenso che si esaltasse Celestino; poiché la

glorificazione del Papa perseguitato sarebbe stata una tacita boi-

 

 

- 84 -

latura del suo persecutore. Si può sostenere che tutte queste

cose, che i cronisti contemporanei narrano per filo e per segno,

le sapesse anche Dante, e non avesse scrupolo alcuno di man-

tenere il suo giudizio, contro quello della Curia Romana. Egli

era ostile a Bonifacio, anche lui simoniaco e destinato a inter-

porsi tra Niccolò III e Clemente V; ma non per questo nutriva

simpatia per Filippo il Bello, anzi con parole di fuoco biasima

l'attentato di Alagna (Purg. XX 86):

Veggio in Alagna entrar lo fiordaliso

E nel vicario suo Cristo esser catto ;

Veggiolo un' altra volta esser deriso,

Vegg o rinnovellar 1' aceto e il fiele,

E tra nuovi ladroni essere anciso.

Dopo morto, Bonifacio gli appare, non ostante le sue colpe,

in tutta la maestà dell' alto ufficio. E se contro l' oltraggio di

Alagna Dante ha protestato, non è meraviglia che protesti con-

tro un giudizio di Clemente che importa un oltraggio non mi-

nore della violenza soldatesca. Il poeta avrà avuto della santifi-

cazione di Celestino quello stesso concetto che ebbe della con-

danna dei Templari, anche quella imposta da Filippo (Ivi 93):

Veggio il nuovo Pilato si crudele

Che ciò noi sazia, ma, senza decreto

Porta nel Tempio le cupide vele.

Si aggiunga quest' altra osservazione, che mi è suggerita dal

collega D' Ovidio. Dante salva le apparenze; non nomina il pec-

catore, non fa palese sfregio al decreto del Papa mettendo in

inferno colui che egli ha giudicato essere in Paradiso. Prende

cosi due piccioni ad una fava. Non si mostra irriverente da un

lato, e dall'altro conferma il suo giudizio sull'abdicazione di Ce-

lestino, parsagli un atto codardo rispetto ai pericoli che cor-

reva e corse la Chiesa cadendo nelle mani di un prepotente o

di un fastoso, il quale della sua autorità aveva tanto maggiore

opinione quanto più bassa era caduta in confronto ai tempi d' In-

nocenzo III e di Gregorio IX.

 

 

-85-

Oltrecché il D' Ovidio stesso ha osservato, non essere impro-

babile che Dante abbia pubblicato i primi canti del poema prima

del 1313, e che dopo quell'anno non gli sia parso bene di mutare

ciò che era già divulgato.

Tutte queste considerazioni non lasciano dubbio che Dante

poteva benissimo mettere nell' antinferno Celestino senza pren-

dersi neanche quella libertà, che altre volte non si lesinò, quando

gli piacque di tirar su dei pagani in purgatorio e in paradiso con-

tro la stessa dottrina cattolica, che egli pure accetta, dopo avervi

mosse le più forti obbiezioni. Ma potrebbe anche darsi che Dante

ignorasse come fossero andate le cose in Avignone. Io non ho

prova positiva da addurre, ma la testimonianza del Villani, che

esplicitamente pone la santificazione di Celestino nel 1328, e la con-

ferma del Boccaccio, ci danno da pensare. Se storici, che avranno

messo tutto il loro buon volere ad accertare i fatti, ne sono

rimasti al buio, e' è da dubitare che anche Dante, benché più

antico, non sia stato più istrutto di loro. Io ho un sospetto, che

per ora non saprei quanto tenga, che cioè Clemente V non

s' affrettasse a partecipare alle chiese italiane 1' avvenuta santifi-

cazione. Egli ben sapeva qual grido avrebbe suscitato in Italia,

specie nei circoli che alla memoria di Bonifacio eran devoti, e

come ne avrebbero tratto argomento a biasimare, ancora più

aspramente di quel che solessero fare, la traslazione della sede

in Avignone, e la conseguente soggezione alla casa di Francia.

Vedemmo testé come Dante facesse eco a questa accusa. Era

interesse di Clemente V non eccitare maggiormente gli animi, e

se per timore di Filippo pronunziò il suo giudizio, per timore

degl' Italiani non lo trasmise sollecitamente come avrebbe do-

vuto. Ricordo che la data della santificazione è il 5 maggio 1313,

e la morte di Clemente accadde prima che spirasse l'anno cioè

il 20 Aprile 1314.

 

 

Il Prof. Cosmo nelle Mistiche nozze di frate Francesco con

madonna povertà p. 43 dubita " che Dante dopo il 13 ignorasse

 

 

— 86 —

come erano passate le cose in Avignone „; perché l' Historia

ecclesiastica di Tolomeo di Lucca pubblicata " probabilmente

dopo il 12 e prima del 17 „ e il Cronicon lordani danno la

notizia della santificazione; anzi la prima dice esplicitamente:

sub catalogo Sanctorum adnotavit Petriim confessorem, quia sic

vocabatur ante Papatiim, per quod videtur dominus Clemens rati-

ficasse renuntiationcm ; quia noluit ipsum vocari Coelestinum. Que

st' ultima osservazione ci mostra, come " i circoli devoti alla

memoria di Bonifazio non avrebbero certo scelto la santifica-

zione di un papa per eroiche virtù illustre a combattere la poli-

tica di Clemente. Tanto più che non sotto il nome di Celestino,

ma con quello di Pietro da Morrone il Papa avea voluto si fa-

cesse la canonizzazione; più solenne ratificazione della legittimità

della rinunzia al papato i circoli bonifaciani non avrebbero po-

tuto desiderare. E poi se la canonizzazione fu celebrata con gran

pompa, come avrebbe potuto sperare papa Clemente V che la

cosa avesse a rimaner ignota in Italia? Che se il Villani e il

Boccaccio sbagliarono, anche Donato Bossio e Giovanni Tri-

temio fecero lo stesso, e almeno per quest' ultimo si vorrà am-

mettere una fonte indipendente dai due primi „.

Il Prof. Cosmo piuttosto che scrollare rincalza l'argomenta-

zione mia; perché se non furono soli il Villani e il Boccaccio

ad errare, ma anche altri storici indipendentemente da loro, si

rende ancor più probabile che la causa dell' errore stia che il

fatto non fosse comunemente conosciuto, come ad una solenne

santificazione converebbe. Il Villani sa registrare i più piccoli

casi riguardanti la Chiesa, e per filo e per segno ci narra del

patto simoniaco, che sarebbe corso nella foresta di Saint-Iean

d' Angely tra Bertrando di Goth e Filippo il Bello, ma della

santificazione fatta da Bertrando ad istanza di Filippo non sa

nulla, e crede invece che non Clemente V ma Giovanni XXII

abbia levato sugli altari il pio eremita. Una ragione di questo

strano errore ci dev' essere, ed in mancanza di meglio ne ho

suggerita una. Io stesso ho confessato che la mia era una sem-

plice conghiettura, della quale nessuna prova sapevo addurre al-

 

 

-87 -

lora, né so neanche ora; poiché la ricerca pili importante sui

regesti di Giovanni XXII non sono in grado di farla. Per ora

posso dire che le argomentazioni negative del Cosmo mi per-

suadono poco; poiché sarà benissimo che Tolomeo di Lucca

conoscesse per informazioni avute i fatti, che nello stesso anno

1313 in cui egli scriveva, erano succeduti. Ed anche io la testi-

monianza del Lucchese avevo addotta con le altre pur contem-

poranee di Giovanni da S. Vittore e di Bernardo Gui. Ma non

è detto per questo che gli stessi fatti dovessero essere noti a

Dante; poiché dato pure che tutte quelle cronache si pubblicas-

sero neir anno in che furono scritte, non ne segue che abbiano

dovuto venire a cognizione all' esule, quando non furono cono-

sciute neppure da uno storico di professione come il Villani.

Né poi posso ammettere che i circoli devoti alla memoria di

Bonifacio non si sarebbero commossi alla santificazione. Non

bisogna dimenticare che Bonifacio fece arrestare e rinchiudere

nel castello di Fumone il profugo Celestino, e che quindi la

santificazione di quest' ultimo era come una implicita condanna

del primo, il quale si era mostrato cosi crudele verso il Santo

uomo. Senza dubbio Clemente V non acconsenti a tutte le richie-

ste di Filippo il Bello, Della invalidità della rinunzia non era pili

da parlare; perché in tal caso si dovevano annnullare le nomine

e le promozioni e i provvedimenti tutti emanati dal successore.

Dichiarare inoltre Pier da Morrone se non papa almeno martire,

come voleva il re francese, a Clemente non bastò l'animo; poiché

era come accreditare le voci che la morte di Celestino si do-

vesse alle persecuzioni di Bonifacio. Egli dunque acconsenti al

minimo che poteva; ma questo minimo bastava perché i seguaci

del Gaetani, e non eran pochi, se ne sentissero offesi. Che giu-

dizio si facesse in Italia del pontefice che accusavano di tale

servilità al re francese, da essersi fatto complice delle iniquità

commesse contro i templari, e non avere dubitato di trasferire

la santa sede in Avignone, si può raccogliere, come dissi, da Dante

medesimo, il cui linguaggio è più violento contro il nuovo lasone,

che non contro lo stesso Bonifazio, Come sarebbero cresciuti gli.

 

 

— 88 —

odii verso il lontano Pontefice, se si fosse saputo da per tutto

quel che esplicitamente riferisce Tolomeo da Lucca, che cioè ad

istanza del re francese il processo di beatificazione fu aperto e

condotto a termine ! Ed un' altra osservazione conviene aggiun-

gere. La santificazione di Celestino se riusciva amara a parecchi,

da molti altri e principalmente dagli spirituali di ogni ordine

doveva essere accolta con giubilo. E molte feste dovevano farsi,

principalmente negli Abruzzi, in onore del nuovo Santo. Come

mai nessun cronista contemporaneo di questa solennità ci ha la-

sciato ricordo? Se si ammette che la bolla di santificazione fu

tardata a spedirsi in alcune regioni, tutto si spiega. Ma, ripeto,

la mia è una conghiettura, che serve non a chiudere ma ben

piuttosto ad aprire le ricerche a chi abbia modo di esplorare

gli archivi vaticani, oggi fortunatamente accessibili a tutti gli

studiosi.

 

 

IL

 

 

Un' altra quistione dantesca può farsi, ma forse è cosi sottile

che nessun altro finora, per quello che io sappia, vi ha accen-

nato, all' infuori del Fraccaroli (^). E non vorrei che il lettore

mettesse il mio collega e me tra quelli che a forza di assotti-

gliarlo perdono tra le mani il filo del vero. La quistione è questa.

Gli eretici sono puniti da Dante nel sesto cerchio dell' inferno

entro tombe roventi; il rogo, che li ha consumati in vita, si riac-

cende per non più spegnersi nella città di Dite:

Qui son gli eresiarche

Coi lor seguaci d' ogni setta, e molto

Più che non credi son le tombe carche.

Veramente delle eresie il poeta non adduce se non una affatto

filosofica, quella degli Epicurei, che l' anima col corpo morta

 

 

(') Fraccaroli, // cerchio degli eresiarchi. Modena, Namias, 1894. Cfr. la re-

censione del D' Ovidio neW Antologia 15 Sett. '94.

 

 

-89 -

fanno; ma ad una schiettamente teologica pure accenna, a quella

dei monofisiti, alla quale secondo Dante, che ripete le accuse

del tempo suo, avrebbe acconsentito il papa Anastasio II ('). Il

posto dunque per Frate Dolcino avrebbe dovuto essere tra quelle

arche infocate, non nella nona bolgia accanto a Maometto, il

quale, con postuma profezia, dice che fra breve lo avrà a com-

pagno, se non s' adopera di provvedersi

Si di vivanda che stretta di neve

Non rechi la vittoria al Noarese

Che altrimenti acquistar non saria leve.

Perché Dante mette il fraticello di nessun ordine tanto alto,

o, per essere topograficamente pili esatti, tanto basso, da pareg-

giarlo niente meno che con Maometto?

Gli è vero, come osserva il D' Ancona, che nel Medio Evo

Maometto non è tenuto per fondatore di una nuova religione, si

bene per eretico, che ammaestrato da un cristiano o Sergio o

Niccola o Pelagio che sia, guasta e corrompe la tradizione cri-

stiana ('), e non è quindi a meravigliare che Dante metta un

eretico con un altro. A chi proponesse siffatta soluzione del

quesito nostro, si potrebbe rispondere, che per quanto agli occhi

di Dante il maomettanismo possa apparire una eresia non di-

versa dalle altre, pure egli non ne disconosce la speciale impor-

tanza, come quella che fra tutte ebbe cosi larga diffusione da

strappare alla Chiesa buona parte dell' Asia minore e dell' Africa

 

 

, ('( Anastasio papa guardo

Lo qual trasse Fotin dalla via dritta.

Inf., XI, 8.

II Bartoli nella Storia della letteratura italiana, VI, parte II p. i66, vide giusta-

mente che Dante non fa quella confusione tra Anastasio papa ed Anastasio im-

peratore, che dicono i commentatori. Martino Polono ed Anastasio bibliotecario

ritengono anch' essi che il Papa avesse comunicato con Fotino, che tenea le

parti di Acacio. Vedi più sopra p. 20.

(') D' An'cona, // tesoro di Brunetto Latini versificato, nelle Memorie della

R. Accademia dei Lincei, anno CCLXXXV, 1888, p. 178 e segg.

 

 

— 90 —

settentrionale, e da portare nella Siria tale e tanta rovina, che

il sepolcro stesso di Cristo fu preso dagl' infedeli, e se fu loro

ritolto per opera delle prime crociate, dopo tante guerre e tanto

sangue versato ricadde nelle loro mani con onta e danno, che

non solo fino al tempo di Dante, ma puranche ai giorni nostri

dura tuttora. Per questo Dante giustamente mette Maometto non

cogli eresiarchi comuni, non con Farinata, non con Capaneo,

bensì più giii in più dolorosa bolgia. Ma perché fa a Dolcino lo

stesso onore?

Senza dubbio l' eresia degli Apostolici, come ho già detto

altrove, è ben più radicale di tutte le altre che la precedet-

tero, fra quelle, intendiamo bene, che non rinnegano del tutto

il Cristianesimo. Perché Dolcino voleva cancellare in un punto

la storia di tredici secoli, e tutte le istituzioni della Chiesa, Pa-

pato, clero secolare e regolare, scalzar dalle fondamenta per ri-

tornare alla povertà e semplicità dei primi Apostoli. I Fraticelli^

i Beghini, i Valdesi, gli Arnaldisti,. coi quali pure il Dolcino ha

tanti punti di contatto, son ben piccola cosa in confronto a lui;

perché quelli vogliono correggere chi questo e chi quel punto

della tradizione cattolica, Dolcino la vuol correggere o per me-

glio dire la vuol disfare tutta (*). Solo i catari andavano più in

là di lui, che al monismo cristiano volevano sostituita un' altra

religione, il dualismo manicheo; ma i Catari al tempo del Dol-

cino si contavano sulla punta delle dita, e se il cronista chiama

anche lui cataro o gazare, fuorviando parecchi dei moderni, non

è per attribuirgli il credo dualistico, si piuttosto per affibbiargli

quel nome, che nella sua mente soleva rappresentare l' eretico

più pravo e pernicioso. E non è da revocare in dubbio che se

 

 

(') Practica Ittquisittonts heretice praviiatis, auctore B. Guidonis, ediz. Douais,

Paris, 1886, p. 332. „ Et quia modo est tempus in quo omnes tam praelati quam

clerici et religiosi a caritate Dei et proximi refrigerati sunt... melius fuit et est

rel'ormare modum vivendi proprium Apostolicum quam aliquem alium modum

vivendi tenere „. Vedi nell'Archivio storico ital. Serie V Tom. XIX un mio stu-

dio Gli Apostolici e fra Dolcino.

 

 

— 91 —

il Dolcino non è un cataro, è certo il pili pericoloso degli ere-

tici, che credono nell* unità di Dio e nella divinità di Cristo.

Per un altro verso qualche punto di simiglianza avrebbe po-

tuto ritrovare Dante tra l' Eresia Maomettana e la Dolcinista, e

riguarda i rapporti sessuali. In molte leggende del medio evo, la

ragione per cui il Maomettanismo ebbe si grande seguito, si at-

tribuisce all'avere il- profeta lasciato libero freno alle libidini.

Anche su questo punto era acculato il Dolcino ; se a ragione o

a torto, non importa qui ricercare. Certo fra gli articoli che da

un inquisitore erudito, da fra Guidone o Gui, gli sono rimpro-

verati, c'è anche questo: " quod quilibet hujus et quelibet mu-

lier nudi simul possint licite jacere in eodem lecto et licite tan-

gere mutuo unus alteruni in omni parte sui et osculari se invicem

sine omni peccato, et quod coniungere ventrem suum cum ventre

mulieris ad nudum, si quis stimuletur carnaliter, ut cesset temp-

tatio, non est peccatum ; item quod iaceré cum muliere et non

commisceri ex carnalitate maius est quam resuscitare mortuum (') „.

Non occorre qui ricercare se queste accuse sien vere, e se le

dottrine più spudorate dei Beghini del libero spirito siensi in-

filtrate tra gli Apostolici. Basterà per noi sapere che al tempo

di Dante queste accuse correvano per le bocche di tutti, e Gui,

o r autore che egli copia, le registra nel 1316, in quel torno

d' anni, in che fu scritta la Commedia. È poi un fatto storico che

dei Dolcinisti uomini e donne andavano insieme pellegrinando,

uniti nella loro missione apostolica, e che Dolcino non avea

scrupolo di presentare, se non come sposa, certo come diletta

compagna e sorella, la bellissima Margherita, da lui trafugata da

un convento trentino.

Tutte queste cose son vere, ma non basterebbero a parer

mio a risolvere il problema, che ci siamo proposti; perché è ben

difficile ammettere che Dante avesse tale conoscenza del moto

ereticale dei suoi tempi, da valutare il moto del Segalelli e del

 

 

(') Guidonis, Op. cit. p. 338.

 

 

— 92 —

Dolcino più pericoloso degli altri che lo precedettero. Il Villani,

che pure parla di Dolcino, non ne dice nulla d' importante al-

l' infuori di quello che è comune a tutti gli eretici, ed è dubbio

che Dante ne sapesse più del Villani; poiché dei moti ereticali

del suo tempo, anche dei più notevoli, come del cataro, del v^al-

dese e dell' arnaldista, egli non fa parola. E si che Arnaldo da

Brescia sarebbe stata una figura da commuovere la sua fantasia!

Siamo dunque al punto di prima. Come mai Dante mette alla

pari il Dolcino, la cui opera non lasciò quasi alcuna traccia di

sé, e il Maometto, la cui eresia, se s' ha da chiamare cosi, si

diffuse largamente avanzando di vittoria in vittoria? Dolcino e

Maometto non sono puniti come eretici, bensì come scismatici,

vale a dire nel senso che intende Dante, gente che non è con-

tenta di avere questa o quell' opinione sugli articoli di fede, ma

dell' opinione se ne fa un' arma per gittare la discordia tra gli

uomini. Maometto, come dice Martino Polono, la sua legge " gla-

dio coepit, per gladium tenere animabitur „. Non è diverso il Dol-

cino, per quanto 1* opera sua non abbia avuto 1' esito del fortu-

nato Profeta della Mecca; poiché fra tutti gli eretici del suo

tempo è quegli che sa maneggiare la spada, e per quanto- rim-

proveri ai Papi di avere fondato sul sangue 1* impero loro, non

rifugge dallo spargerne anch' egli quando la necessità glielo im-

ponga. Il cronista contemporaneo, e forse non estraneo alla

guerra fatta dai suoi concittadini all' eresiarca novarese, racconta

elle questi soleva dire, non essere illecito mettere a sacco e

fuoco i paesi nemici, imprigionarne e passare anche a fil di

spada gli abitanti, se la ragion di guerra non consigli altri-

menti ('). Un apostolo, che sapeva cosi bene menar le mani, e

che per due volte sorprese in imboscata ben diretta i suoi assa-

litori, facendone gran strage, aveva agli occhi di Dante qualche

rassomiglianza con Maometto. Anche egli sarebbe stato invinci-

bile, se contro di lui non avesse combattuto più l' inclemenza

 

 

(') Historia fratris Dulcini, in Muratori Scriptores IX, 437.

 

 

— 93 —

del clima che il valore e 1* ardimento degli uomini. Anche egli,

se, le circostanze gli fossero state favorevoli, avrebbe seminata

la discordia tra gli uomini, come fece nell' alta Val Sesia, dove

ben pili di quattro mila si strinsero intorno a lui e soffrirono

per due anni i disagi della più terribile guerra di montagna, per

non cedere se non quando stretti d' assedio ed affamati erano

ridotti a mangiare, secondo il cronista le carni dei propri morti.

Un uomo di tanta audacia, che avea saputo cosi bene trattare la

spada, era giusto che l'ultrice spada di Dio lo rompesse si d'an-

darne storpiato non meno di Maometto e di Ali

Fesso nel volto dal mento al ciuffetto.

 

 

University of Toronto

Library

 

 

 

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 Secondo Pieri (PIERI, 1919, p. 79), il toponimo Cascia è di origine romana e deriva dal personale Cassius; Tracchi (TRACCHI, 1983, p. 831) invece ritiene che il nome possa essere collegato alla via Cassia Vetus che attraversava la zona.
La pieve di S. Pietro è documentata nelle fonti scritte a partire dal 1040. Un’errata tradizione, sviluppata sulla scia di Repetti, la vorrebbe consacrata nel 1073, come avrebbe testimoniato un’epigrafe, vista dall’erudito, murata nell’abside dell’edificio.
La lapide non è stata rinvenuta e le forme attuali del corpo di fabbrica fanno pensare che sia stato costruito fra XII e XIII secolo. E’ probabile, come è stato verificato per quella di Gropina (AR), che la pieve ‘romanica’ sia sorta sopra un precedente edificio religioso; indizio di questa trasformazione potrebbero essere anche le notevoli dimensioni del corpo di fabbrica. Ad avvalorare questa supposizione alcuni tratti di murature che affiorano dal terreno retrostante l’abside.
Nel 1102 la pieve è confermata al vescovo di Fiesole con la corte ed il Castelnuovo di Cascia. E’ probabile che il plebato di Cascia avesse raggiunto già all’inizio del secolo XII l’assetto definitivo, documentato nelle decime degli anni successivi (Moretti afferma che "la costituzione della pieve durò per tutto l’alto Medioevo, raggiungendo l’assetto definitivo soltanto nel XII - XIII secolo".
La vasta estensione del territorio di pertinenza, cui nel XIII secolo sono suffraganee ventiquattro chiese, determinò probabilmente la decisione di intraprendere una nuova fabbrica che la tradizione seicentesca attribuiva al periodo matildino (Tabarrini, Vol. A, c.1r: corre pubblica voce e tradizione essere stata (la pieve) edificata dalla generosa carità della contessa Matilde).
La documentazione si fa più consistente fra XII e XIII secolo, quando "il glorioso istituto delle pievi entra in crisi". Nel 1260, attraverso il Libro di Montaperti, conosciamo parte della organizzazione del plebato ormai suddiviso in popoli e per gran parte sottomesso alla Repubblica fiorentina. Nel XIV secolo i documenti scritti ricordano il dormitorio (spedale, 1339) ed il porticato della pieve.
La pieve è caratterizzata da due complessi architettonici: San Pietro e la torre campanaria costruiti in epoche distinte come risulta dalle due diverse tipologie murarie degli edifici.
Entrambi hanno subito interventi di restauro; la pieve nel 1968 e la torre campanaria tra il 1985 ed il 1988. Ai due edifici sono affiancati i corpi di fabbrica della sacrestia e della canonica.
L’edificio è caratterizzato dal corpo della chiesa (31 m. x 15,70) e dal porticato antistante (5,80 m. x 15,70). La pieve è a tre navate; la navata centrale è di larghezza doppia rispetto a quelle laterali e termina in un’abside semicircolare. Le navate sono scandite, ad intervalli regolari, da cinque colonne e da un pilastro presso la zona presbiteriale; lo spazio risulta quindi diviso in otto campate.
Il paramento murario è costituito da conci perfettamente squadrati di arenaria disposti in filari regolari paralleli. Durante il restauro del 1968 sono state rimosse le stratificazioni storiche post-medievali (altari seicenteschi, cappelle laterali, sepolture presso l’altare e chiusura del cortile posteriore come risulta dalle mappe catastali).
La torre campanaria nasce come corpo isolato cui in epoche successive sono state addossate le strutture della canonica. Ha forma quadrata con il lato di 6,60 m. e poggia su di un basamento di circa 50 cm di larghezza visibile sui lati nord ed est. La torre è alta 32 m. Nel 1717 è documentata con la forma e le dimensioni attuali (il campanile di pietra forte macigno di bozzi, gira attorno quattro facciate larghe ugualmente quarantasei braccia, ognuna braccia undici e mezzo, è alto braccia cinquantacinque con quattro finestroni. Separato dalla chiesa da braccia circa quattro; scoperto già ab antiquo, con scale di legno, ha piccola porta senza serratura; TABARRINI, vol. A, c. 20r.). Le trasformazioni subite dalla struttura sono anteriori al XVIII secolo. Le campane sono state realizzate nel 1247, 1484 e 1488. A metà del XIII secolo la torre, come si deduce dalla realizzazione della prima campana, svolgeva la funzione di campanile, questo probabilmente già a partire dagli anni dell’edificazione della pieve fra XI e XII secolo.
La torre fu realizzata, con altezza diversa, prima della pieve e svolse probabilmente funzione difensiva e di avvistamento. È del 1245 un documento citato da Davidsohn relativo all’utilizzazione della struttura a fini difensivi: Cacciaconti dei Da Quona, podestà di Cascia, dà ospitalità a patarini cacciati da Firenze. Da questa data si può pensare che la torre, perdute le sue primitive e peculiari funzioni, abbia continuato nella consuetudine ad essere utilizzata sia come punto forte che come campanile.
La pieve si dotò per la prima volta di un organo nel 1674, allorché le Compagnie di S. Antonio Abate e quella della SS. Annunziata acquistarono da un certo padre Cianistrelli di Firenze (per la somma di 100 scudi) uno strumento che fu subito posto in una nuova cantoria, appositamente costruita nella parete in "cornu Evangelii" dal maestro falegname Giovanni Maria Giunti.
L'organo subì molteplici modifiche ed interventi di restauro tra la fine del XVII e la prima metà del XVIII, epoca nella quale fu spostato sopra una nuova cantoria nella controfacciata, sopra la porta principale della chiesa.
Negli anni '70 del '700 esso fu completamente ricostruito da un maestro tedesco residente a Figline Valdarno (Giuseppe Rittenfels), e circa un secolo dopo fu venduto alla chiesa di S. Stefano alle Corti, ed ampliato da un tale Demetrio Bruschi di Loro Ciuffenna.
Recentemente è stato portato nella chiesa di S. Maria del Ponterosso a Figline.

Fonte:
www.tuscany.name/CORNUCOPIA/plebati/plcascia.htm

Articolo Wikipedia: http://it.wikipedia.org/wiki/Pieve_dei_Santi_Pietro_e_Paolo_a_Cascia

Coordinate: 43°40'30"N 11°31'47"E

Nearby cities: Arezzo, Siena, Forlì

 

 

 

 

 

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